Tanto il rapporto OCSE dello scorso giugno, quanto i più recenti dati ISTAT, confermano la stagnazione economica italiana nel quadro di un perdurante rallentamento dell’economia mondiale. L’economia italiana subisce maggiormente le conseguenze della crisi rispetto agli altri paesi più sviluppati e questo rende ridicoli tutti i tentativi di Renzi e dei suoi ministri di presentarsi come il governo che sta traghettando l’Italia fuori dalla crisi. Ci troviamo, in ogni caso, di fronte a un fenomeno di portata mondiale, una tendenza alla quale le più attrezzate centrali del grande capitale e i più brillanti economisti al loro servizio non riescono ad opporre nessuna misura efficace.
Questo è l’elemento principale, il più condizionante, per la vita presente e futura dei popoli di ogni paese. La politica dei singoli governi, che è praticamente al servizio dei grandi gruppi capitalistici, cerca di rendere loro i migliori favori, consentendo, in queste circostanze, di mantenere i loro profitti al livello più alto possibile attraverso vari accorgimenti di politica economica.
Indubbiamente, il mezzo più importante per salvaguardare i profitti capitalistici di fronte alla crisi è la pressione sui salari. Una pressione che si articola in provvedimenti di vario tipo, secondo i quadri giuridici, le consuetudini e le condizioni precedentemente acquisite dai lavoratori di ogni paese, e che segue alcune linee ben definite: in primo luogo, la riduzione al livello più basso possibile della componente dei salari fissata e garantita da accordi collettivi o da leggi nazionali, per “lasciare spazio” alla contrattazione locale, aziendale o addirittura individuale. In secondo luogo il prolungamento della giornata lavorativa e dell’orario di lavoro in generale inteso come tempo del lavoratore, nel periodo in cui questo è a disposizione dell’imprenditore. Si tratti di un giorno, di una settimana, di un mese, di un anno o di un’intera vita che le imprese si appropriano. In terzo luogo, l’utilizzo dell’aumento della massa dei disoccupati, di lungo o di breve periodo, che contribuisce a rendere più efficaci le due linee precedenti, indebolendo la forza della classe lavoratrice nel suo complesso di fronte al padronato.
A suo tempo, Marx chiarì che per i capitalisti il rapido consumo delle energie vitali di una generazione di operai non costituiva un problema per il funzionamento della macchina capitalistica a condizione che vi fosse una grande disponibilità di forza-lavoro inutilizzata, cioè un gran numero di disoccupati. In tali condizioni, il prezzo della forza-lavoro, cioè i salari, possono essere tranquillamente abbassati ben al di sotto del livello di sussistenza e si può utilizzare la “miseria organizzata” della classe operaia per spingerla a lavorare per sempre più ore al giorno. In altre parole, un accorciamento della “speranza di vita” dei lavoratori, un aumento dei morti e dei mutilati sul lavoro, un aumento delle patologie da lavoro, sono un prezzo più che accettabile per il capitale, dal momento che il lavoratore, come una macchina, si può facilmente sostituire.
Prendiamo un esempio concreto. Un’indagine resa nota di recente dal settimanale inglese The Observer, denuncia le infami condizioni di lavoro dei lavoratori delle calzature in diversi paesi dell’Europa orientale. Le grandi aziende tedesche, italiane e di altri paesi europei inviano i “pezzi” di cui sono fatte le scarpe nelle sweatshop (le fabbriche del sudore, come venivano chiamate nell’Inghilterra dell’800) che si trovano in Romania, Albania, Serbia, Macedonia, Bosnia. In queste fabbriche i pezzi vengono assemblati e le scarpe finite vengono rispedite ai paesi d’origine che le etichetteranno come made in Italy o made in Germany o altro ancora. Salari da terzo mondo e condizioni di lavoro bestiali garantiscono profitti d’oro alle firme più prestigiose. In Macedonia, ad esempio, in una fabbrica che lavora per la Geox, si pagano salari da 131 euro al mese, straordinari compresi, quando il salario minimo legale è di 145 euro senza straordinari.
Spesso gli operai si ammalano per le sostanze chimiche che maneggiano senza protezione e per il freddo che li congela nei capannoni nei mesi invernali. In Romania, un’operaia testimonia che due salari, il suo e quello di suo marito, che lavora nella stessa fabbrica, non consentono loro di crescere dei figli e nemmeno di procurarsi la legna per scaldarsi in inverno; per potersela permettere, l’uomo deve accettare dei lavori stagionali malpagati in Europa occidentale. In Albania i calzaturieri lavorano per poco più di 50 centesimi l’ora. Indagini come questa ci mostrano verso quale avvenire il capitalismo è capace di spingere i lavoratori.
Questo ritorno alle condizioni operaie descritte nei romanzi di Dickens o nelle pagine del primo libro del Capitale, avviene alle porte di casa nostra, non in qualche remota provincia del Sudest asiatico, ed è ovvio che attraverso i mille fili che legano l’economia mondiale, e quella europea in particolare, e attraverso le stesse strutture delle aziende internazionalizzate, queste condizioni premono sui lavoratori dell’Europa occidentale, i quali hanno allora tutto da guadagnare ad appoggiare le rivendicazioni dei loro compagni dell’Est per salari più alti, orari di lavoro più bassi e condizioni di sicurezza adeguate.
Questi sono i problemi più urgenti che la crisi e l’azione consapevole dei grandi gruppi capitalistici pongono ai lavoratori anche in Italia. Molte delle questioni che i mezzi d’informazione pongono al centro delle dispute politiche, dalla crisi del movimento Cinque stelle al referendum sulla riforma costituzionale, non meritano nemmeno un millesimo dell’attenzione che i lavoratori dovrebbero consacrare a questi problemi.