L’orario di lavoro è “un attrezzo vecchio che non permette l’innovazione”. Così ha sentenziato il Ministro del Lavoro Poletti, parlando agli studenti dell’Università Luiss in un convegno sui temi del Jobs Act. Buono a sapersi. Il cottimo invece era considerato un attrezzo vecchio negli anni ’60: oggi torna in auge per consentire un altro passo nell’inversione di rotta.
In attesa che Confindustria imponga il proprio modello ai Sindacati, il Governo collabora studiando il modo di legare la retribuzione a parametri più convenienti per l’impresa; ed ecco che l’ora di lavoro “non può essere l’unica unità di misura”, il lavoro deve diventare agile, anzi deve diventare “smart working”, perché - come ogni novità legislativa - deve essere afflitto da un accento anglosassone: fa più figo, fa più nuovo, e soprattutto si capisce meno cosa vuol dire. Naturalmente è tutto legato alla partita sulla contrattazione, sulla quale tutti affilano le armi, soprattutto le imprese, e molto poco i destinatari diretti dei provvedimenti, i lavoratori.
Naturalmente la faccenda è presentata come una nuova opportunità, alla quale – chissà perché - non avevamo pensato prima. “La nostra vita è stata fortemente disegnata sulla necessità di essere efficaci ed efficienti al lavoro” dice Poletti “Abbiamo cambiato i nostri ritmi di vita, modificato molti comportamenti per seguire gli orari. Oggi le tecnologie ci consegnano un po’ più di libertà. Probabilmente possiamo riguadagnare qualche metro di libertà nell’esistenza individuale. Però dovremmo essere capaci di immaginare un cambiamento dei contratti di lavoro che non abbiano più come misura essenziale di riferimento l’ora di lavoro”.
In un mondo in cui anche l’orario di lavoro è virtuale, soggetto a ogni genere di abuso: ti assicuro per quattro ore e me ne lavori otto, fai tutti i giorni due ore di straordinario e non te le pago…vieni a lavorare il sabato e ti dò qualcosa fuori busta…eccetera eccetera, ecco una nuova straordinaria opportunità.
Ovvero, ti pago solo se mi rendi, e magari quanto mi devi rendere lo stabilisco io. In altri tempi, oltre alla meno elegante definizione di cottimo, era diventato sinonimo di asservimento feroce e di sfruttamento al limite della forza umana.
Oggi si chiama “smart working” e chissà quali contenuti è pronto ad accogliere.
Legare sempre più la retribuzione ai risultati è un processo già in corso, di cui abbiamo parlato tante volte.
In alcuni Paesi, la Germania per esempio, il lavoro a cottimo è già previsto, e in parte regolamentato. Sulle sue conseguenze si fanno studi coscienziosi, come quello comparso di recente dell’avvocato giuslavorista Gerald Wiedebusch, la cui sostanza è condensata in un’asserzione persino ovvia, ma evidentemente non tanto da essere chiara a tutti, nemmeno ai lavoratori stessi: i dipendenti rischiano di pagare gli errori dell’azienda (Il Fatto Quotidiano, 4.12.2015).
E’ vero che in Germania non è permessa una riduzione dei salari legata a un calo dei profitti, ed è garantito un salario minimo legale (peraltro infimo). E’ vero che accordi di lavoro a cottimo non si possono fare senza il consenso, non solo del lavoratore, ma anche del consiglio di fabbrica. E’ vero che – se esiste una contrattazione collettiva - la regolazione del salario non può sostituire accordi individuali…ma in tempi di sindacato debole e di pressioni forti, non sono ostacoli insuperabili. Le intenzioni del Governo in proposito sono chiare: “Una parte dello stipendio può essere riproporzionata sulla base della produttività”, e soprattutto si può semplicemente spianare la strada alle imprese, tanto poi il grosso del lavoro potranno farlo da sole.
Più potere alle imprese, meno spazi alla contrattazione. Il Governo ci metterà la sua parte spalancando la porta agli accordi aziendali invece del contratto collettivo nazionale, le imprese potranno darsi da fare declinando l’organizzazione del lavoro in tutti i modi possibili: lavoro a singhiozzo, reperibilità fuori orario, cellulari accesi a tutte le ore, e chissà quanti altri mezzi fantasiosi di sfruttamento.
Secondo Poletti, i lavoratori dovrebbero gioire per “aver riguadagnato qualche metro di libertà nell’esistenza individuale”.
Aemme