La questione del debito pubblico continua a far discutere. Si avvicinano le elezioni europee e il governo è sotto accusa da parte delle forze dell’opposizione parlamentare. D’altra parte, la Commissione Europea, come ha spiegato lo stesso ministro dell’economia Giorgetti in un’audizione al Parlamento, ha messo pressione al Consiglio europeo per aprire una procedura di eccessivo disavanzo per l’Italia e altri paesi. Un disavanzo che, nel caso italiano, si aggiunge a un debito cumulato di dimensioni mostruose.
Vista nel suo insieme e specialmente nella sua tendenza pluridecennale, la vicenda dell’enorme debito italiano ci mostra almeno due cose. La prima è che nessun governo è mai riuscito a invertire una tendenza che, a partire dal 1980, si è sviluppata più o meno uniformemente fino ai giorni nostri. Allora il debito pubblico rappresentava all’incirca il 60% del Prodotto interno lordo (Pil), oggi, con la cifra da capogiro di 2850 miliardi, ne rappresenta il 140,6% con un ulteriore aumento, previsto, al 140,9% l’anno prossimo. La seconda cosa è che questo debito continua ad essere acquistato, sotto forma di titoli, da vari gruppi finanziari. E acquistato volentieri!
Un parcheggio che non costa ma rende
Ora, se banche, fondi di investimento e gruppi assicurativi fanno a gara ad acquistare titoli del debito di Stato ad ogni asta, tanto che spesso la domanda eccede di parecchio l’offerta, è difficile dedurne che si sia di fronte a uno straordinario e disinteressato slancio patriottico.
Il debito è fonte di lucro per vari e decisivi settori del capitalismo italiano e straniero. Nel caso del capitalismo italiano, poi, si può dire che il suo rapporto con il debito di Stato rivela un vero e proprio “modello” nazionale. Bisogna premettere che la quota di debito detenuta da investitori italiani è ormai il 73% del totale, di cui le famiglie rappresentano una piccola minoranza. Il quadro potrebbe riassumersi così: i ceti, in stragrande maggioranza riconducibili alla classe borghese, responsabili della quota preponderante dell’evasione e dell’elusione fiscale (quest’ultima anche nella sua versione perfettamente legale), e quindi dell’aggravarsi del debito pubblico, strillano contro l’indebitamento eccessivo, che “ricade sulle future generazioni”, ecc. Ma poi sono ben contenti di avere a disposizione uno strumento di “investimento” al riparo dalla volatilità della Borsa, dove parcheggiare i propri enormi profitti in attesa delle occasioni più buone, traendone nel frattempo un discreto guadagno. Inutile aggiungere che questi enormi profitti, queste enormi masse di denaro, sono composte anche dalla quota sottratta al fisco attraverso, come si è detto, l’evasione e l’elusione.
Una borghesia tre volte parassitaria
Senza contare tutto il resto della sua attività e dei suoi imbrogli finanziari, la borghesia esercita quindi sulla società un ruolo tre volte parassitario: essa si appropria del frutto del “normale” sfruttamento della forza-lavoro, si sottrae al pagamento di buona parte delle imposte dovute al suo Stato, e quindi, in qualche modo, lo deruba, e infine, prestando denaro a questo stesso Stato ne ricava un interesse. Nella legge di Bilancio per il 2024 è prevista una spesa di 418 miliardi, cioè più di un terzo del totale delle spese statali, per il pagamento del debito, di cui circa 100 miliardi di interessi. E certo, quando Giorgetti ha dichiarato che “per evidenti ragioni di sostenibilità, si richiede la massima ponderazione delle risorse da destinare alle singole politiche pubbliche” e che , “ormai, è innegabile la necessità di misurare e monitorare gli effettivi benefici di ogni singola spesa”, non intendeva menomare in alcun modo il grosso bottino degli “investitori”.
Questi “investitori”, evidentemente, ritengono che la stabilità finanziaria italiana consente di prestare con fiducia i propri soldi a uno Stato che, con ragionevole sicurezza, li restituirà nel tempo pattuito con l’aggiunta di un buon interesse. Inoltre, quasi i tre quarti dei titoli acquistati sono buoni poliennali, cioè con durata superiore a un anno e con cedola fissa, e questo conferma la “fiducia” di gran parte della borghesia nella solidità dello Stato.
Si capisce quindi come la “fiducia” sia un elemento essenziale per gli interessi dei grandi gruppi del mondo bancario, assicurativo e dei fondi d’investimento. Cosa che del resto non vale soltanto per il debito pubblico ma per l’intero sistema finanziario. Ma la fiducia si genera dalle “garanzie” che si possono offrire.
Ed ecco allora che, dall’ambito grigio e anonimo dei grafici economici e dei bilanci, si passa al mondo tempestoso con il quale si confronta oggi il governo e, più ancora, lo Stato italiano.
Politica estera al servizio dei profitti e delle rendite
Nel mare agitato delle relazioni internazionali, tra guerre, tensioni geopolitiche e geo-economiche di ogni tipo, ai gruppi finanziari italiani, come a tutta la grande borghesia, la scelta obbligata appare quella di mettersi fermamente e ostentatamente sotto le ali protettrici dell’aquila americana. Questo spiega l’atlantismo sfegatato della Meloni, esibito a ogni piè sospinto, e spiega le linee fondamentali della politica estera italiana. In questo quadro, ogni pronunciamento governativo sulla scia della diplomazia americana viene percepito (per ora) come un tranquillizzante segnale di stabilità.
Detto questo, proprio per il carattere estremamente “pragmatico” o, se vogliamo essere più chiari, venale degli orientamenti della grande borghesia, c’è in questa classe o per suo conto chi soppesa e segue con attenzione gli sviluppi dei rapporti tra gli Stati per tentare di individuarne lo sbocco: gli Stati Uniti continueranno a sostenere l’Ucraina contro la Russia? O invece, anche attraverso l’eventuale rielezione di Trump, arriveranno a un accordo e si sfascerà tutta la costruzione delle sanzioni? I paesi europei, in questo caso, rischiano di rimanere col cerino acceso in mano? Non converrebbe allora predisporre un “piano B”? Le forze e le singole personalità politiche italiane che oggi vengono comunemente descritte come “putiniane” non potrebbero domani rappresentare una “uscita di sicurezza”? Le elezioni in Slovacchia hanno premiato un altro “putiniano”, non sarà l’annuncio di un più importante riorientamento di un numero maggiore di Stati? È certo che queste domande serpeggiano negli ambienti dei grandi industriali, dei banchieri, dei grandi gruppi assicurativi.
Alla favola della “guerra per la difesa della democrazia” potrebbe sostituirsi quella della “lotta per la pace”, con buona pace delle decine di migliaia di vite spezzate dalla macchina della guerra. L’importante è che la stabilità e l’ordine capitalistico siano tutelati, che lo Stato italiano paghi puntualmente le sue cedole e garantisca vecchie e nuove fonti di profitto, anche con un sistema di alleanze internazionali adeguato. Naturalmente, tra ciò che si desidera e ciò che si realizza c’è il mare degli interessi contrastanti delle varie potenze il cui scontro produrrà risultati che nessuno è in grado di prevedere.
R. Corsini