L'arma spuntata dei referendum

Ci risiamo: la Cgil ci riprova. Banchetti di qua e di là, e perfino una raccolta online, per chi non si muove nemmeno per andare a mettere una firma. Il vecchio vizio di cercare le scorciatoie dove non ci sono

 

Magari per i più giovani si tratta di una novità, ma bisogna che siano proprio giovani-giovani. Per tutti gli altri, bisogna che siano proprio deboli di memoria per aver dimenticato tutti, ma proprio tutti, i referendum che avevano per oggetto argomenti di normativa in materia di lavoro, e soprattutto per aver dimenticato che: A) o sono stati persi; B) o non hanno raggiunto il quorum C) o sono stati dichiarati inammissibili D) o per non vararli è stato modificato qualche dettaglio legislativo.

Malgrado queste semplici considerazioni, che dovrebbero quanto meno indurre a una riflessione sulle motivazioni che hanno portato a questi risultati, la Cgil ha nuovamente imboccato la strada dei referendum. Le proposte sono quattro: una è un replay del 2017, già ci aveva provato quell'anno la Cgil a promuovere un referendum sull'abolizione dell'abolizione dell'art.18; allora non era stato ritenuto ammissibile, e ci riprova sette anni dopo, proponendo l'abolizione dell'intero Dlgs n. 23 del 2015, altrimenti detto Jobs Act. Il secondo punta a superare l'indennità di 6 mesi per i licenziamenti nelle piccole imprese, lasciando la discrezionalità al giudice. Il terzo a reintrodurre le causali per le assunzioni temporanee, anche nei primi 12 mesi. Il quarto si occupa dei lavori in appalto, per abolire la norma che esclude la responsabilità solidale delle aziende committenti nell'appalto e nel subappalto, in caso di infortunio e malattia professionale della lavoratrice o del lavoratore.

Il tutto comporta la messa in campo dell'intero apparato con l'allestimento di banchetti, gazebo e quant'altro, nonché una sfilata di personalità politiche e dello spettacolo firmatarie, ordinatamente elencate sul sito Cgil con lo scopo di confermare la bontà dell'iniziativa in questione. Investire le energie di un Sindacato che ha perso gran parte delle sue attrattive e della sua forza, screditandosi negli anni, nel promuovere questi quattro referendum risulta più un sintomo di debolezza che di forza. Contro l'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, un Sindacato che nel 2002 era stato capace di raccogliere due milioni di persone al Circo Massimo riuscendo a bloccare il tentativo di uno dei Governi Berlusconi, capitolava nel marzo 2015 di fronte al "fuoco amico" del Governo a guida PD di Matteo Renzi, talmente ammutolito da proclamare uno sciopero generale soltanto il 16 dicembre di quello stesso anno, quando i più lo considerarono (e in realtà lo era) ormai puramente rituale. Altrettanto rituale lo sciopericchio di due ore che aveva salutato nel dicembre 2012 l'introduzione della cosiddetta Legge Fornero sulle pensioni: anche in questo caso nessuna azione adeguata per impedirne l'applicazione.

Ma un Sindacato che non è stato capace di imporre le proprie istanze con la lotta, davvero può pensare di imboccare una scorciatoia e di riuscire così dove ha fallito? Con uno sforzo di memoria si potrebbe ritornare indietro addirittura al 1985, quando l'Italia fu chiamata al voto sul cosiddetto "Decreto di San Valentino", con il quale il Governo Craxi aveva tagliato tre punti di contingenza della scala mobile che al tempo adeguava i salari all'inflazione. Con un PCI allora molto forte che aveva promosso il referendum e una partecipazione al voto che sfiorò l'80%, il risultato fu 45,7% di SI' all'abrogazione della norma e 54,3% di NO all'abrogazione della norma. Era il primo forte colpo di mazza ai salari, e la scala mobile fu definitivamente abolita nel luglio del 1992, con la fattiva collaborazione della Cgil di Bruno Trentin. La diminuzione progressiva dei salari dunque non data da oggi, e nemmeno la precarietà. Ma anche la scarsa affidabilità dello strumento referendario non data da oggi: se l'esperienza può insegnare qualcosa, come minimo dovrebbe insegnare che sottoporre problemi e questioni che riguardano unicamente la classe lavoratrice al giudizio dell'intera società e di tutte le classi sociali non porta proprio bene. Perché mai tutte le categorie della società - comprese classi di nullafacenti, percettori di rendite, gente che ha esportato i capitali all'estero, evasori fiscali totali, star dei social, negozianti, liberi professionisti, politici di professione, ministri di culto - dovrebbero decidere se lavoratrici e lavoratori dipendenti debbano o no essere licenziati senza giusta causa, o assunti temporaneamente senza altro motivo se non il poterli tenere sotto ricatto permanente? E per quale motivo un sindacato che si dichiara dalla parte della classe lavoratrice dovrebbe esporla al giudizio di tutta la società, anziché organizzarla per affermare i propri diritti? In un momento così critico come quello attuale, davvero vale la pena concentrare le proprie energie sullo strumento referendario?

Resta da fare un'ultima considerazione, rivolta ai giovani che fanno queste esperienze per la prima volta. Ci saranno sicuramente fra loro quelli che hanno accolto con un certo entusiasmo la proposta referendaria, e magari si sono attivati nella raccolta delle firme e nella propaganda sindacale collegata. Ci auguriamo che la Cgil abbia valutato quanto profondamente potrebbe pesare nella militanza lo scoraggiamento per una possibile sconfitta, e abbia gli strumenti per arginarne le conseguenze. Dopodiché, naturalmente, ci auguriamo anche la vittoria nei referendum, qualora venissero ammessi.

Aemme