A oltre un anno dall’inizio della pandemia, al bilancio delle vittime e delle relazioni sociali disperse si è aggiunto il disastro di chi ha perso il lavoro e ha pochissime probabilità di recuperarlo. Come sempre, c’è chi paga più di altri
Nei primi giorni dalla pubblicazione dei dati ISTAT sull’occupazione ne 2020, tutti i media sono usciti con commenti allarmati per la perdita di posti di lavoro che la seconda grave crisi degli anni 2000, dopo la crisi finanziaria 2008/2011, ha causato nel nostro Paese. Tutti i dati pubblicati sono concordi su una constatazione molto semplice, e anche intuitiva: tutte le categorie di lavoratori hanno più o meno sofferto per la crisi (gli ultimi dati ipotizzano quasi un milione di posti di lavoro perduti), ma chi ha subito le conseguenze più gravi sono state le categorie più deboli. Come spiega in poche parole Il Sole 24 Ore del 16.3.21: “Le categorie più colpite dall’emergenza sanitaria sono state quelle che già erano lavorativamente più svantaggiate: le donne, i giovani e gli stranieri. Le donne che hanno perso il lavoro nel 2020 sono il doppio rispetto ai colleghi uomini. Questo da un lato perché occupano più spesso posizioni lavorative meno tutelate, ma dall’altro perché sono impiegate nei settori che sono stati più colpiti dalla crisi “. Non a caso però sono proprio i settori più colpiti dalla crisi quelli che offrono posizioni di lavoro meno tutelate, più precarie perché collegate a periodi o stagionalità, a orario ridotto, o semplicemente posti di lavoro al nero. E non a caso sono proprio i posti di lavoro che sono occupati più spesso dalle donne. Non è la pandemia ad aver creato la disoccupazione femminile o la differenza di retribuzione tra uomini e donne, ma sicuramente in periodi di crisi sono le donne le prime ad essere scaricate dalla macchina di produzione capitalistica, le prime a pagare in termini di posti o condizioni di lavoro. E’ un fatto che le donne si siano ammalate sul lavoro più degli uomini durante la pandemia, perché hanno occupato proprio le posizioni più a rischio nei servizi, che sia durante il confinamento di inizio pandemia, sia dopo, hanno continuato a funzionare: la sanità, i servizi di pulizia e sanificazione degli ambienti, l’assistenza agli anziani e ai disabili, il lavoro nei supermercati e nelle rivendite di alimentari: tutti lavori quasi esclusivamente con manodopera femminile, e non fra i meglio retribuiti. Alle condizioni a rischio, inoltre, non sempre hanno corrisposto misure di tutela: fra le figure che hanno avuto la precedenza nella vaccinazione abbiamo avuto i professionisti e gli avvocati, ma non le commesse dei supermercati, che frequentano ogni giorno luoghi ad alto rischio di contagio, maneggiando e scambiando denaro che potrebbe essere infetto. Di certo la pandemia non ha niente a che vedere con la frequente precarietà del lavoro femminile; se mai la precarietà è dovuta al tipo di lavoro svolto. Lavori stagionali collegati alla ristorazione, al commercio, al turismo: tutte attività ad altissimo tasso di manodopera femminile, e tutte attività frenate da un anno a questa parte. “Nel 2019 il 17% delle donne lavorava a tempo determinato, mentre quelle in part time erano un terzo del totale delle occupate, contro l’8,7% fra gli uomini, percentuale che sale al 42% fra le donne senza un diploma. I comparti in cui il part time è più diffuso sono gli alberghi e ristoranti (47,3%) e i servizi alle famiglie (58,4%); mentre le professioni in cui si segnalano le maggiori incidenze di part time sono quelle non qualificate e quelle svolte nelle attività commerciali e nei servizi” (Il Sole 24 Ore, 16.3.21). Non è stata la pandemia in sé a creare discriminazione sul lavoro, o a creare condizioni di disparità di genere nella società e nelle famiglie; questi sono dati storici purtroppo radicati, nei confronti dei quali le donne non hanno mai smesso di lottare. Ma è un fatto che la crisi generata dalla pandemia aggrava in particolare la condizione femminile: chi può tende a mantenere le condizioni migliori acquisite, e chi si trova in posizioni svantaggiate ne subisce le conseguenze. In questo senso le donne si sono trovate a contrastare la crisi su più fronti, perché hanno dovuto resistere anche in ambiente familiare. Le “fortunate” tra loro che hanno dovuto affrontare un lavoro in smart working hanno dovuto farlo aggiungendo anche la sorveglianza dei figli, in didattica a distanza, e le numerose incombenze domestiche di cui la componente maschile della famiglia raramente si fa carico. Durante la pandemia sono aumentati i casi di violenza sulle donne in ambito familiare. Non ci vuole molto a immaginare cosa può provocare una convivenza forzata in situazioni già drammatiche. L’incapacità della società, così com’è strutturata, di controllare la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, ha la sua versione speculare nella sopraffazione che gli uomini esercitano sulle donne, percepite come soggetti più deboli, e per questo possibile bersaglio di soprusi. In questo senso lo sciopero internazionale, proclamato dalle donne in occasione dell’8 marzo, riporta questa data al suo significato e al suo valore originario, e fa giustizia del pietismo e dei toni lacrimosi che vengono riservati, con una buona dose di ipocrisia, agli atti di violenza verso le donne. E’ la direzione giusta e il giusto segnale anche per le nuove generazioni: le donne non sono e non devono essere oggetto di pietà, ma soggetto di lotta.
Aemme