Che l’epidemia potesse dare vita ad una società nuova, fondata su una riscoperta di legami umani al di là delle leggi e delle logiche del capitalismo, era, già al suo sorgere, una baggianata che non necessitava di smentite, per altro puntualmente e abbondantemente sopraggiunte.
L’emergenza coronavirus ha però effettivamente contribuito a fare ulteriore chiarezza su alcuni aspetti della società capitalistica, mettendo brutalmente in luce dati di fatto preesistenti, talvolta acutizzando contraddizioni intrinseche nel vigente modo di produzione.
La nauseabonda ondata di sciovinismo, demagogia e razzismo, che ormai dilaga nel quadro della politica borghese nazionale, è arrivata al punto di plasmare e diffondere al parossismo una rappresentazione della presenza extracomunitaria e migrante in Italia nei termini di un grande fenomeno esclusivamente delinquenziale e comunque legato a dinamiche volte a danneggiare gli interessi complessivi del Paese. Ogni accenno alla funzionalità di questa forza-lavoro straniera per rilevanti settori dell’economia capitalistica in Italia, per la gestione di vaste e delicate aree di criticità sociale e per i diretti interessi di non pochi ambiti padronali assai vicini politicamente alle formazioni sovraniste e populiste veniva (e nuovamente e ampiamente verrà) sdegnosamente rigettato come falsa argomentazione ideologica, come pretestuosa formula giustificatoria sventolata da una sinistra tanto sensibile alla retorica globalista e radicaleggiante quanto distante dai veri bisogni del vero popolo italiano. Tesi questa tanto più paradossale quanto in realtà la sinistra dello scenario politico borghese si è distinta per ignavia, timidezza e inerzia – quando addirittura non si è gettata all’inseguimento delle politiche repressive della destra – in tema di flussi migratori.
Ma, nel pieno della pandemia, sono stati gli imprenditori agricoli e le loro associazioni (di certo non accusabili di nutrire simpatie per critiche anticapitalistiche o particolari sensibilità terzomondiste verso gli “ultimi” del pianeta disseminati lungo le rotte migratorie) a proclamare a gran voce quanto i lavoratori immigrati siano fondamentali per il buon esito dei loro affari.
Tra fine agosto e inizio settembre, avvicinandosi sempre più il clou della stagione della vendemmia, gli imprenditori agricoli di zone come il Monferrato e l’Astigiano sono tornati a lanciare le loro grida di dolore, puntualmente riprese e veicolate dalla stampa locale. Coldiretti e Confagricoltura hanno ripetutamente invocato che le norme sanitarie anti-Covid tengano presente la necessità di disporre di forza-lavoro straniera, hanno richiesto a gran voce strumenti “fruibili” (aggettivo che ha riscosso un grande successo nella prosa dei padroni agricoli) per impiegare la forza-lavoro, fino ad invocare l’annullamento dei versamenti contributivi. Sarebbe anche divertente – se non fosse che la faccenda chiama in causa durissime condizioni di vita e di lavoro di un proletariato su cui si intende scaricare tutti i costi, veri e presunti, del lockdown – la ripetuta pantomima messa in scena dal mondo imprenditoriale agricolo, secondo cui meccanismi di assunzione totalmente sbilanciati da parte padronale, forme di impiego letteralmente “usa e getta”, avrebbero come fine quello di andare incontro ai poveri tra i poveri e fornire mezzi di sussistenza alle fasce più disagiate della popolazione. D’altronde si tratta in buona parte di componenti borghesi che hanno sistematicamente avvelenato terre e acque per decenni (ammesso che questa azione possa essere coniugata ormai solo passato), hanno fatto strame degli equilibri ambientali, anteponendo senza la minima esitazione – com’è d’altronde nella loro profonda natura di classe – il loro profitto ad ogni preoccupazione di benessere collettivo e che oggi assumono sfacciatamente (soprattutto in presenza di un concreto tornaconto) pose e atteggiamenti ambientalisti ed ecologisti. Strana, si fa per dire, la concezione di mercato (in altre circostanze così arditamente propugnata nella sua declinazione più liberista e anti-statalista) che questi signori dimostrano di perseguire: la merce forza-lavoro è quanto mai richiesta e contenuta di numero eppure il suo prezzo e la sua capacità di contrattazione devono essere prontamente tenuti a bada dall’intervento dello Stato, che deve imporre formule di impiego in grado di garantire al padronato comunque un utile livello di precarizzazione. Insomma, gli imprenditori agricoli (componente borghese di risaputa, storica e ribadita vicinanza ai registri politici e retorici della destra nazionalista) non hanno il benché minimo imbarazzo a mettere a lavorare sui propri campi e nelle proprie vigne operai agricoli di ogni nazionalità e colore, purché siano “fruibili”. Che si spacchino cioè la schiena per il minor salario possibile e che tolgano prontamente il disturbo quando la stagione, e la massimizzazione del profitto, lo richiedano, senza infastidire lorsignori con anacronistiche e anti-economiche esigenze di tutela pensionistica o simili.
Di che qualità e spessore sia la motivazione umanitaria e solidale che animerebbe le proposte del padronato agricolo di snellire le forme di impiego della manodopera lo ha dimostrato a modo suo il presidente del Consorzio di tutela Vini d’Acqui, in un’intervista all’edizione locale de La Stampa.
Difficoltà a reperire braccianti stranieri? Tariffe orarie troppo (per l’imprenditore, la cooperativa o il lavoratore…) elevate? Si passa alla meccanizzazione della vendemmia, e chi s’è visto s’è visto. Certo, l’affermazione secondo cui «la macchina risolve tutto» tradisce una concezione un po’ semplicistica e superficiale del capitalismo, ma in fin dei conti l’attitudine a giudicare il mondo, l’umanità e i suoi destini dal buco della serratura del proprio tornaconto diretto e immediato è una vocazione borghese, un contrassegno di classe, che davvero non si può limitare al singolo viticoltore.
Insomma, tra sedicenti filantropi in marcia per ridurre salari e tutele ai lavoratori e seguaci del futurismo imprenditoriale per cui tutta la società è in salute se lo sono i loro bilanci aziendali, il catalogo della borghesia agricola “rigenerata” dal coronavirus ripropone con rinnovata aggressività la vecchia, feroce, indole di classe.
Corrispondenza Piemonte