Un’inquietudine generale sembra essersi impadronita di tutte le classi sociali in questi mesi di pandemia. Che cosa ci riserva il futuro? Governo, opposizione, imprese, piccoli commercianti, lavoratori tutti si chiedono quando si potrà tornare alla normalità. Alcune frange di piccola borghesia commerciale hanno animato manifestazioni di protesta, anche molto vivaci in alcune città. Talvolta dei gruppi di destra ne sono stati i promotori, ma il malcontento è reale. Tanto che al momento in cui il governo ha deciso di suddividere il Paese in regioni gialle, arancioni o rosse, secondo il tasso di diffusione del virus, molti presidenti regionali si sono ribellati, rivendicando per il proprio territorio una situazione migliore di quella attribuitagli dalla scala cromatica governativa. Cosa non si fa per mantenere il consenso!
Ma al di là di queste operazioni di corto respiro, per la classe operaia e, più in generale, per i lavoratori salariati si stanno predisponendo tutte le premesse per un netto peggioramento delle condizioni di esistenza. Già oggi, per esempio, è stata completamente cancellata dall’attenzione pubblica la questione delle fabbriche, dei porti, dei grandi centri di smistamento delle merci o degli stessi mezzi di trasporto. Eppure, nella prima fase della pandemia erano stati oggetto almeno di un dibattito come possibili centri di diffusione del virus. Questa volta invece, sotto i riflettori sono andate a finire solo quelle attività che, per loro natura, sono sotto gli occhi di tutti.
Occasionalmente, gli operai beneficiano degli onori della cronaca. Come i bengalesi che lavoravano per quattro euro l’ora nei cantieri spezzini, sottomessi alla violenza e ai taglieggiamenti dei “caporali”. Le indagini della Guardia di Finanza qui hanno svelato un’organizzazione ben avviata, che usufruiva dell’appoggio di professionisti e consulenti del lavoro, in modo da fare apparire tutto legale, tutto regolare. Marco Revelli ha commentato sulla Stampa dell’11 novembre: “La ricchezza assoluta del consumatore di lusso si sposa alla miseria assoluta del produttore ridotto a «vita di scarto»”. Una vicenda che riassume efficacemente che cos’è il capitalismo e che cosa vorrà essere sempre di più.
L’incertezza fa dormire sonni agitati ai piccoli commercianti, agli artigiani ai proprietari di piccoli alberghi e ristoranti. Molti di loro allungano ora le file di quanti si rivolgono alla Caritas per avere un pacco alimentare o un pasto caldo, fianco a fianco con gli operai che hanno perso il lavoro, italiani o immigrati che siano.
Ma nel mondo della grande borghesia le cose vanno diversamente. La pandemia si rivela sempre di più, per banche e grandi imprese, come un’occasione per riorganizzarsi e impadronirsi delle attività di quei concorrenti che hanno le “spalle meno larghe”. Si assiste così a un doppio movimento: da una parte fiumi di denaro si indirizzano verso i settori più promettenti, che sono attualmente quelli legati all’industria farmaceutica e al “digitale”, dall’altra prosegue, attraverso fusioni e acquisizioni, il processo di concentrazione del capitale. La banca Intesa San Paolo, per esempio, si è “mangiata” Ubi Banca. In questo modo si è formato un colosso che figura secondo per capitalizzazione nell’eurozona e sesto per risultato operativo. Una serie di fusioni e acquisizioni minori, nel corso del 2020, attesta che il capitalismo italiano, come quello di tutto il mondo, persegue una propria strategia di concentrazione, lasciando volentieri ai reporter la descrizione del dramma sociale dovuto alle conseguenze della crisi e le invocazioni del governo a “uscirne tutti insieme”.
I fondi europei sono già alla base di un’operazione propagandistica che è il naturale corollario dell’appello governativo. Ecco allora che i più noti commentatori cominciano a scrivere e a dire che i famosi 209 miliardi del Recovery Fund, o parte di essi, vanno comunque ad aumentare un debito pubblico che “dovremo” restituire in qualche modo. Non è difficile immaginare che allo slogan “ne usciremo tutti insieme” seguirà quello di “salveremo l’economia nazionale tutti insieme”.
È una canzone già sentita tante volte. Non abbiamo dubbi che i lavoratori si rendano conto che quel “tutti insieme” significa che il prezzo maggiore dovranno pagarlo loro. Anche per consentire a padroni e speculatori di borsa di guardare con serenità al futuro dal ponte dei loro yacht di lusso.