Il voto di fine febbraio avrebbe dovuto mettere fine alla crisi politica e ne ha scritto invece un’altra pagina. Diradatosi il polverone dei primi giorni, possiamo provare a tirare qualche conclusione. La prima e la più evidente è che sabato 24 e domenica 25 febbraio un elettore su quattro è rimasto a casa. A questo fatto si aggiunge l'affermazione delle liste di Beppe Grillo che fa il paio con il tracollo dei consensi dei principali partiti: rispetto alle precedenti elezioni politiche il PD ha perso il 28% di voti e il PDL quasi la metà.
È l’istantanea di una profonda crisi politica. Scricchiola, sotto i colpi della crisi, il sistema del consenso organizzato dai partiti tradizionali. Il successo di Grillo ha una larga base popolare. Mentre le fabbriche chiudono e mentre si chiudono anche le prospettive di un lavoro decente per milioni di persone e per i loro figli, dirigenti politici e manager di stato continuano ad assegnarsi lauti compensi e privilegi al di sopra di ogni limite di sopportazione pubblica. Senza considerare naturalmente la serie senza fine di casi di corruzione e di bustarelle. Sono cose di cui praticamente ogni giornale parla da mesi, contribuendo a far crescere l’indignazione nei ceti popolari. Le liste “Cinque stelle” hanno capitalizzato questa indignazione.
La totale inettitudine, la venalità e l’arroganza sociale della cosiddetta “classe politica” le fanno perdere gran parte dei consensi, e questo diventa un problema per gli stessi grandi gruppi capitalistici che dominano di fatto la vita del paese. Ma al tempo stesso diventa comodo nascondere le proprie responsabilità dietro l’indignazione contro la “casta”. Per questo anche il quotidiano della Confindustria ha pubblicato alcuni commenti benevoli nei confronti del movimento di Grillo.
La ricerca affannosa di un’ipotesi di governo all’indomani del voto ha calamitato l’attenzione dei commentatori politici. Ma nel frattempo la crisi economica prosegue e si approfondisce, e se escogitare una formula di governo minimamente stabile, con un Senato diviso in tre gruppi apparentemente inconciliabili, è oggettivamente un’impresa quasi senza speranza, pensare di affrontare la disoccupazione, i salari di fame e il deterioramento dei servizi pubblici dai seggi del Parlamento è un’illusione puerile.
Ogni richiamo al dramma della questione sociale si articola in numeri che descrivono condizioni di fatto. Ma questi numeri evolvono continuamente nella direzione del peggio. Così i disoccupati sono ora quasi tre milioni, la disoccupazione giovanile supera il 38%, i precari sono quattro milioni, le spese per consumi delle famiglie sono scese del 4,3%. Secondo la Banca d’Italia, gli operai hanno subito una riduzione del potere d’acquisto del 10% tra il 2000 e il 2010. Tutti i pronostici dipingono un futuro anche peggiore.
Nessun governo e nessuna opposizione parlamentare potrà migliorare la situazione per i lavoratori e per i ceti popolari. La crisi infatti imporrebbe di superare i limiti imposti dalla legislazione attuale a difesa dei grandi patrimoni, imporrebbe, forzando il diritto di proprietà, di utilizzare tutti i capitali disponibili per rispondere alle urgenze più elementari della popolazione e per garantire a tutti uno standard accettabile di civiltà. Se questo non viene fatto è perché lo Stato, qualsiasi governo sia in carica, è il presidio del capitalismo. È il sistema fortificato eretto a difesa del modo di produzione capitalistico. Ma il sistema capitalistico non è un ente impersonale. È fatto di persone in carne ed ossa che considerano il proprio tenore di vita, le proprie ricchezze, le proprie posizioni di potere come conseguenza dell’ordine naturale delle cose. Non molleranno mai niente dei loro privilegi se non ci saranno costretti.
Ai lavoratori resta quindi solo la strada della lotta. Una lotta risoluta per i propri interessi condotta in prima persona, il più possibile in modo unitario, lontano dalle illusioni parlamentaristiche, dai tentativi di mettere qualche rattoppo all’edificio barcollante delle istituzioni borghesi e dalle lotte che i singoli apparati di partito, vecchi e nuovi, si fanno per accaparrarsi il diritto a meglio servire il capitalismo.
Per quanto ne dicano i sapientoni economisti, consentire a tutti una vita decente al riparo dalla miseria e dalla disoccupazione è possibile. È possibile anche impedire i licenziamenti e distribuire il monte ore lavorativo fra occupati e disoccupati con la garanzia di un salario pieno. Secondo i portavoce delle classi privilegiate sarebbero “spese improduttive”. In realtà sarebbero spese utili perché servirebbero a fare vivere la gente mentre toglierebbero a questi parassiti qualche privilegio. Dietro il realismo che politici ed economisti contrappongono a qualsiasi rivendicazione generale della classe lavoratrice, c’è la difesa dei privilegi di una precisa classe di ricchi e di super-ricchi, privilegi sempre più insopportabili per l'insieme della società.