La lotta dell’Embraco impone la sospensione dei licenziamenti

Resta la pesante incognita del mantenimento dei posti di lavoro anche per il futuro. Se fallisse il progetto di riconversione industriale, a inizio 2019 potrebbero ripartire le lettere di licenziamento


La lotta dei lavoratori dell’Embraco, iniziata nell’ottobre scorso (vedi L’Internazionale gennaio/febbraio 2018), ha raggiunto un primo, seppur parziale, risultato. È stato infatti siglato il verbale di accordo tra azienda, sindacati e Mise che “congela” i 500 licenziamenti fino alla fine dell’anno. In questo periodoi lavoratori saranno pagati a salario pieno.Le lettere di licenziamento sarebbero dovute partire il 26 marzo decretando così la chiusura della fabbrica della multinazionale Whirpool con la conseguente delocalizzazione della produzione di compressori per frigoriferi da Riva di Chieri in Slovacchia. Ancora una volta, però, come in tanti altri accordi su aziende in crisi, vi è la pesante incognita di cosa accadrà l’anno prossimo. Il mantenimento dei posti di lavoro è infatti legato alla riuscita della riconversione industriale della fabbrica entro il 2018, un’operazione possibile solo se si troveranno nuovi imprenditori disposti a subentrare alla Whirpool. I lavoratori di Embraco dovranno pertanto vivere per un anno nell’inaccettabile incertezza su quale sarà il loro futuro lavorativo, come nel dramma Aspettando Godot.

Nel corso della vertenza, il ministro Calenda, che in questa vicenda si è presentato ai media nei panni del “sindacalista” arrabbiato, ha lanciato anatemi contro l’intransigenza dell’azienda accusandola di «irresponsabilità sociale e di mancanza di attenzione al valore delle persone» aggiungendo di non voler più ricevere «questa gent…, gentaglia». È poi volato a Bruxelles per chiedere alla Commissione europea di verificare sui presunti aiuti di Stato concessi al gruppo Whirpool dal governo slovacco. Peccato che il governo italiano si sia più volte comportato allo stesso modo, foraggiando con denaro pubblico le aziende straniere disposte a insediare le loro produzioni in Italia. Aziende che non hanno esitato, come la stessa Embraco, a scappare col “gruzzolo” in altri paesi attratte dai salari più bassi e dalle agevolazioni fiscali. L’Embraco è solo l’ultima di una lunga lista, che va dalla statunitense Micron Technologies all’indiana Videocon e, per citare un caso molto simile all’Embraco, all’americana Honeywell. Sono solo alcune delle multinazionali “prendi i soldi e scappa”. Vorremmo chiedere al ministroCalenda di farci conoscere le aziende che si sono contraddistinte per “responsabilità sociale” e “attenzione al valore delle persone”. L’unica attenzione che i padroni manifestano da sempre è riposta nella salvaguardia del profitto. Un’esigenza che il ministro ed il suo governo, aldilà delle frasi colorite espresse nei confronti dei dirigenti Embraco, hanno prontamente assecondato istituendo un fondo per la reindustrializzazione atto a prevenire le delocalizzazioni, un fondo che, parole di Calenda, «vada oltre la normativa sugli aiuti di Stato per chi vuole andare a produrre altrove in Europa». È in sostanza ciò che il ministro aveva chiesto alla Commissione nel suo viaggio a Bruxelles, vale a dire una deroga alla normativa europea sugli aiuti di Stato. Per il governo italiano, evidentemente, si tratta di una normativa che va bene solo per gli altri.

I media hanno dato grande risalto all’azione di Calenda attribuendogli il merito di essere riuscito a battere l’intransigenza di Embraco. Non è così. Il merito va dato esclusivamente ai lavoratori che hanno lottato per più di quattro mesi con scioperi, presidi e manifestazioni combattive. Gli operai di Embraco, come tutti quelli che oggi rischiano di perdere il posto di lavoro, non devono però cadere nella trappola della competizione tra lavoratori. Quello che a loro serve è uscire finalmente dall’isolamento in cui sono relegati da una lotta solo aziendale, pur sacrosanta. Non vi sono particolari “specificità” nei casi di Embraco, Honeywell o altre aziende tali da giustificare una risposta altrettanto “specifica” da parte dei lavoratori. Nel comportamento di queste multinazionali vi è, al contrario, la stessa volontà di disfarsi della propria manodopera per usarne un’altra a loro più vantaggiosa economicamente. E sarebbe ugualmente suicida per gli operai di un paese contrapporsi a quelli di un altro accampando inesistenti interessi nazionali. Il posto di lavoro va difeso ricercando l’unità in una lotta che varchi i confini del proprio paese mettendo fine ad una deleteria contrapposizione.

È questa la strada da percorrere affinché le lotte di tante aziende non diventino armi spuntate. Ai lavoratori non servono risposte episodiche e prive di una prospettiva credibile. Non è purtroppo la direzione scelta da Fim, Fiom e Uilm che, anzi, hanno dimostrato di temere anche queste ultime. Le direzioni sindacali hanno infatti rinviato a data da destinarsi lo sciopero dei metalmeccanici torinesi del 13 marzo indetto in un primo tempo per sollecitare una soluzione delle crisi aperte. Le direzioni sindacali hanno voluto esprimere così il loro apprezzamento al ministro Calenda evitando di infastidirlo con uno sciopero, pur episodico e privo di prospettive.

Corrispondenza da Torino