La lotta contro la disoccupazione non la fanno i governi

Le dimensioni reali della disoccupazione in Europa sono stati rivelati da un rapporto della Banca Centrale Europea nei primi giorni di maggio. Calcolando non solo i senza-lavoro ufficiali, ma anche i lavoratori impegnati in lavori a tempo parziale, come i mini-jobstedeschi a quattrocento euro al mese, la BCE stima che “l’eccesso di forza-lavoro nell’area euro” sia del 18%. Quasi il doppio del 9,5% fino ad oggi spacciato come dato reale.

Questo spiega anche il basso livello dei salari. Un problema anche per la borghesia, nella misura in cui i lavoratori sono anche consumatori. Ma un problema alla cui soluzione deve sempre pensare qualcun altro, perché di rinunciare a una parte di profitti e rendite non c’è nemmeno da parlarne.

Per catturare voti anche tra i lavoratori salariati, la Lega di Salvini e altri correnti politiche di destra, ripescano il concetto marxista di “esercito industriale di riserva”. Lo interpretano alla loro maniera, come se questo “esercito”, cioè la massa dei disoccupati, fosse formato tutto da immigrati che contribuirebbero così, loro soli, ad abbassare i salari italiani e, in generale, gli standard delle condizioni di lavoro. Ora, tanto per citare fonti non sospette, il presidente della Confindustria nella sua relazione all’assemblea degli industriali tenuta a Roma il 24 maggio, ha parlato di otto milioni di disoccupati. Difficile sostenere che sono tutti stranieri!

In realtà, se è vero che l’aumento della massa dei senza-lavoro preme sulle condizioni di chi ha già un impiego e tende comunque a spostare i rapporti di forza a favore del padronato nei confronti dei propri dipendenti, è vero anche che questa pressione si esercita ormai a livello mondiale. Parlando degli “stranieri”,se il marocchino, il bengalese, il nigeriano o il senegalese“tornanoa casa loro”, come si sente spesso dire in giro, contribuiscono ad abbassare ulteriormente i salari di “casa loro”, aumentando la forza di attrazione nei confronti delle imprese italiane ed europee. Le produzioni, specie quelle a più basso contenuto tecnologico, allora,delocalizzano, per salvaguardare i propri profitti senza esseremesse fuori mercato da quelle che utilizzano manodopera locale. È il caso dell’industria tessile del Bangladesh, con operaie pagate meno di 40 dollari al mese.

Oltre le fantasticherie reazionarie sulla costruzione di muri e sulla militarizzazione del Mediterraneo, con tanto di campi di concentramento in Libia, oltre al sogno retrogrado di un ritorno al puro protezionismo economico, c’è la realtà di un mercato mondiale che non si può cancellare con una legge o con un decreto. È nella dimensione mondiale che si svolge ormai la vita economica e i capitalisti italiani ne condividono i frutti con i colleghi degli altri paesi.

I sindacati operai nacquero per impedire che gli industriali mettessero ogni singolo operaio in concorrenza con l’altro, imponendo salari sempre più bassi e orari sempre più lunghi. La contrattazione collettiva riuscì a mettere un freno alla sete di profitto della borghesia. Oggi si pone lo stesso problema su scala mondiale. È vitale la conquista di migliori condizioni di vita per tutti i lavoratori, per impedire la concorrenza al ribasso nelle condizioni di lavoro. Ed è un compito che i burocrati dell’UE, come quelli di qualsiasi altra associazione o organizzazione internazionale di Stati, governi o banche non riusciranno mai ad assolvere.

La lotta contro il peggioramento delle condizioni di lavoro, contro la disoccupazione e la precarietà, non ha niente a che fare con i deliri nazionalisti e xenofobi della destra e nemmeno con il progressismo fasullo di un centrosinistra che fa di tutto per interpretare e assecondare gli interessi del gran capitale. La classe lavoratrice deve prima di tutto imparare a lottare per sé stessa, deve imparare a distinguere gli amici dai nemici, deve forgiarsi gli strumenti per la propria lotta politica. Un lavoro di lunga lena,avrebbe detto Gramsci, nel corso del quale si devono determinare, chiarire e precisare, gli obiettivi di un programma di lotta, basato sugli interessi della classe lavoratrice nel suo insieme, che condurrà inevitabilmente ad una profonda trasformazione sociale.