Andiamo in stampa mentre ancora non si sa se, dopo cinquanta giorni dalle elezioni, ci sarà un governo del Movimento 5 stelle con il PD. Le altre ipotesi, prima di tutte quella di una coalizione Di Maio-Salvini, sono già state bruciate. In ogni caso, i retroscenisti già mettono l’accento sulle resistenze interne al Partito Democratico. Sarebbero i dirigenti più vicini a Renzi a puntare i piedi o almeno ad “alzare il prezzo” con il movimento di Di Maio. Vada come vada, il lungo periodo di litigi e rappacificazioni repentine, di veti e di apparenti aperture, che hanno coinvolto tutti i partiti nel dopo elezioni, ha almeno mostrato che non ci sono questioni di sostanza che li dividono. Calcoli di opportunità sicuramente, ma questioni di sostanza no, non ce ne sono.
La condizione dei lavoratori e dei ceti popolari è tale che le promesse elettorali di chi si è presentato come il portabandiera dei ceti più impoveriti o più a rischio di impoverimento, ha avuto un notevole successo. Nessuno può dimenticare che Salvini ha promesso l’abolizione della legge Fornero sulle pensioni (“una questione etica prima che politica”ha detto in varie occasioni) e che Di Maio ha promesso la reintroduzione dell’articolo 18 contro i licenziamenti senza giusta causa e, in generale, tutti e due hanno promesso di togliere di mezzo il Jobs Act di Renzi. Per non parlare dell’introduzione di un “reddito di cittadinanza”, ostinatamente propagandato dal M5S. Che ne sarà ora di queste promesse?
L’assenza di una iniziativa generale della classe lavoratrice in difesa dei propri interessi vitali, ha creato il vuoto politico in cui si sono infilati tutti i partiti in cerca di voti. I problemi però rimangono. E non sono i problemi del Paese o i problemi degli italiani, come tutti dicono e scrivono. Sono i problemi degli operai, dei lavoratori precari, dei disoccupati, dei pensionati, delle tante vittime dell’economia capitalistica, provenienti dalla stessa piccola o media borghesia che la crisi ha strappato dalle precedenti condizioni sociali precipitandole nella massa dei poveri.
La generale debolezza rivendicativa dei lavoratori si riflette sui salari: l’Eurostat centro statistico della Commissione europea, certifica che i lavoratori poveri sono in Italia l’11% del totale, cifre ufficiali che non tengono conto, naturalmente di tutto il lavoro sommerso. Il salario orario medio lordo in Unione europea è di 13 euro e 44 centesimi, quello italiano di 12,49 e parliamo ancora di lavori regolarmente “contrattualizzati”. Nel 2017, l’anno della ripresina, i salari hanno avuto un trend negativo: - 0,9%, a fronte di una crescita della produttività del 0,4%. Gli italiani, non hanno tutti gli stessi problemi, come si vede. E nemmeno corrono gli stessi rischi per guadagnarsi il pane. Gli infortuni sul lavoro sono in aumento in tutta la penisola. La media europea, in questo caso, è superata abbondantemente. Siamo già a più di 160 morti dall’inizio dell’anno. Si dice che in Italia manchi la cultura della sicurezza. È un’ipocrisia. La realtà è che la paura dell’operaio di perdere il lavoro, l’aumento di intensità delle prestazioni lavorative, le resistenze del padronato a qualsiasi investimento che non procuri un immediato ritorno economico, contribuiscono a trasformare i porti, i cantieri edili, le fabbriche, in trappole mortali. A questo quadro, dati i risultati della legge Fornero, si deve aggiungere il permanere in posti di lavoro ad alto rischio, di operai sempre più anziani.
Tutti i partiti, quelli che hanno vinto e quelli che hanno perso le elezioni, sono sul terreno della difesa del capitalismo come sistema. Quando parlano di problemi del Paese, intendono in realtà i problemi dei grandi industriali, dei banchieri dei gestori di fondi finanziari che, tutti quanti, dalla “politica” vogliono poche cose essenziali: soldi dallo stato, sotto forma di incentivi, di esenzioni fiscali, di appalti pubblici; leggi che consentano ancora di più il “libero” sfruttamento dei lavoratori; una qualche protezione di fronte alla concorrenza straniera; la possibilità di continuare a far quattrini con meno impicci burocratici e meno limiti legali possibili.
Di certo non è un “programma” per i lavoratori, per i quali è invece urgente un blocco dei licenziamenti, anche attraverso una spartizione del lavoro tra occupati e disoccupati, un aumento generalizzato dei salari e la fissazione di un salario minimo decoroso, la trasformazione di tutti i rapporti di lavoro precario in lavoro a tempo indeterminato, l’imposizione pratica del principio “a eguale lavoro eguale salario”. La forza politica che porti avanti queste rivendicazioni non esiste? Non c’è che una soluzione: darsi da fare per farla nascere.