La guerra è figlia del capitalismo

Dai sondaggi traspare chiaramente che la maggior parte della popolazione, in Italia ma non solo, non ha nessuna voglia di farsi trascinare in una guerra. Le immagini di distruzione e di morte che le televisioni mandano in onda tutti i giorni dall’Ucraina, stanno producendo un effetto non previsto dall’apparato propagandistico dei governi europei. Assieme alla solidarietà per tanta gente uccisa, mutilata, rovinata dalla guerra, quei ponti sventrati, quei condomini distrutti, quei giardini trasformati in cimiteri, quelle immagini, suscitano paura. La paura che quelle stesse distruzioni possano verificarsi anche qui. Non è una paura infondata, se lo stesso segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ai primi di febbraio, ha detto, durante un’assemblea generale dell’ONU: “Temo che il mondo non stia camminando come un sonnambulo verso una guerra più ampia. Temo che lo stia facendo con gli occhi ben aperti”.

 

Perché la guerra russo-ucraina rischia di allargarsi all’Europa e ad altri continenti? Perché nonostante le chiacchiere e la propaganda che giornali e televisioni ci somministrano ogni giorno, non si tratta del conflitto tra una tirannia assetata di sangue e di potere e un popolo libero e pacifico. Si tratta invece di un episodio del rimescolamento mondiale delle sfere d’influenza tra le maggiori potenze mondiali, rimescolamento in atto da un buon decennio e che negli ultimi due o tre anni ha avuto una brusca accelerazione. Lo Stato ucraino è una pedina di questo grande gioco, e lo è, entro certi limiti, la stessa Russia. La partita più importante si gioca tra Stati Uniti e Cina.

 

L’America non vuole cedere un millimetro delle sue aree d’influenza e non vuole che sia indebolito il suo ruolo di prima potenza mondiale. Questo contrasto geopolitico sta producendo contraccolpi anche nei rapporti economici internazionali. Molti economisti parlano del passaggio dalla globalizzazione alla “frammentazione” del mercato. In altre parole, gli stati starebbero aggregandosi in vari “poli” economici sempre più coesi tra loro e sempre meno aperti ai rapporti economici con gli altri “poli”. La competizione passa rapidamente dal terreno diplomatico a quello economico e viceversa. Le manovre militari nel mar Cinese da parte delle marine militari statunitense e cinese, vanno di pari passo con le rispettive restrizioni all’importazione. Dalla teoria della libera concorrenza delle merci sul mercato mondiale, gli Stati Uniti sono passati a quella del commercio selettivo per motivi di “sicurezza nazionale”, individuando merci e tecnologie “strategiche”, per il loro possibile impiego militare, di cui vietano l’esportazione in una serie di paesi, tra cui primeggiano la Russia e la Cina. Senza parlare della messa al bando di “Tik Tok”, accusata di essere un possibile veicolo di spionaggio per conto di Pechino, di cui si discute anche in Europa.

 

L’intero scenario richiederebbe una spiegazione più dettagliata: sul ruolo attuale dei paesi europei, sul rapporto tra paesi poveri e paesi sviluppati, sull’importanza del controllo delle fonti di materie prime e di elementi indispensabili alla produzione moderna, come i semi-conduttori, ecc. . Lo spazio occorrente andrebbe ben oltre quello di un editoriale.

 

Ma la cosa più importante da capire è che il sistema capitalistico mondiale - che definiamo imperialista perché caratterizzato dal dominio di poche super-potenze sul piano politico e da pochi grandi centri finanziari su quello economico – non può che generare guerre. Gli equilibri tra stati cambiano col cambiare dei rapporti di forza reciproci. Entro una certa misura questo aggiustamento avviene nelle forme pacifiche dei negoziati e degli accordi. Oltre a questa misura, le ragioni della guerra non fanno che crescere, i materiali infiammabili non fanno che accumularsi. Di questo sono coscienti tutti i governi, che infatti continuano a incrementare le spese militari.

 

La guerra non è un destino ineluttabile solo nel senso che non lo è il capitalismo. La pace può essere conquistata solo strappando alle classi dirigenti attuali il potere di decidere della vita e della morte dei popoli. Non è questioni di lottare per questa o quella formula politica, per questa o quella alleanza tra stati, è questione di togliersi dalla schiena il capitalismo. E potrà farlo solo la classe lavoratrice, sulle cui competenze e sul cui lavoro si basa tutto l’edificio sociale. Vicino o lontano che sia questo traguardo, non se ne possono indicare altri per salvare l’umanità dalla barbarie e dalle mille forme di distruzione e di annientamento che scaturiscono dal capitalismo.