Uno dopo l’altro crollano i regimi del Nord Africa, stabili da decenni. Come sempre, la storia si impone con i suoi modi e i suoi tempi, cogliendo di sorpresa chi si ostina a misurare il presente con il metro della conservazione dello stato di cose esistente.
Appena tre settimane fa, mentre in Tunisia Ben Ali ha già fatto i bagagli, e la piazza egiziana sta per costringere il presidente Mubarak a fare lo stesso, il capo dell’ex Sismi, cioè i servizi segreti italiani all’estero, assicurava al Copasir (Comitato Parlamentare per la sicurezza) che la situazione in Libia era assolutamente sotto controllo, che le condizioni socio-politiche nel paese di Gheddafi, diverse dall’Egitto e dai Paesi del Maghreb, non erano tali da provocare una rivolta, e nessuno in Libia aveva interesse "a far saltare il tappo". Oggi che anche la Libia è in fiamme, possiamo solo constatare ancora una volta come la realtà sia più complessa di quello che si cerca di far credere, e come in un lasso di tempo relativamente breve possono crollare situazioni che sembravano immutabili.
Certamente, se non è facile prevedere gli eventi, si può però prendere atto quanto meno che le redini del potere sono in mano all’esercito in Egitto, e probabilmente lo saranno anche in Libia. Per le classi sfruttate di questi Paesi, ma anche della Tunisia, e degli altri stati che saranno coinvolti nella faglia tellurica che sconvolge il Nord Africa, cambierà realmente qualcosa? E’ veramente difficile credere che, scacciato un tiranno, ma non il sistema politico-economico che rappresenta, si apra una stagione nuova e positiva per gli operai o i contadini egiziani e tunisini. Il fatto che l’esercito egiziano abbia promesso elezioni democratiche a settembre, di per sé non costituisce alcuna garanzia per il loro futuro, e non neutralizzerà le conseguenze della speculazione mondiale sulle materie prime, un fenomeno che molto probabilmente non è estraneo alle convulsioni africane.
Come ha rilevato la FAO (l’Organizzazione delle Nazione Unite per l’alimentazione), a gennaio 2011 i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati per il 17° mese consecutivo, portandosi al massimo dal 1990. Non si può pensare che un dato del genere, che per milioni di persone significa la differenza tra la vita e la morte, possa non lasciare traccia negli equilibri mondiali. Gli effetti di aumenti così vertiginosi hanno ricadute soprattutto sui Paesi cosiddetti "emergenti", dove i consumi sono collegati a un’economia di sopravvivenza; non a caso, per quanto le rivolte popolari possano essere poi convogliate nella rivendicazione di una serie di parole d’ordine "borghesi", come elezioni democratiche, libertà di stampa, etc, la rivolta per il pane resta il simbolo dell’esplosione tunisina.
In una recente intervista rilasciata al settimanale Panorama, l’economista francese Jean Paul Fitoussi, che fa parte dell’OFCE (Osservatorio francese per la congiuntura economica), traccia un quadro generale interessante della speculazione mondiale sulle materie prime, nella quale ogni Paese gioca un ruolo specifico, e ognuno tenta di imporre i propri interessi: "Per fare un esempio, l’Unione europea acquista petrolio, la Russia lo vende. La prima ha interesse a contenerne il prezzo, la seconda a farlo salire. Il prezzo della speculazione è sempre e da sempre pagato dai più poveri. I più poveri tra gli Stati e i più poveri all’interno di un singolo Stato. L’aumento dei prezzi delle materie prime produce inflazione, e quest’ultima pesa in modo molto diverso su chi largheggia nei propri consumi e chi, invece, può acquistare solo l’essenziale. Rischiando di perdere anche l’essenziale, questi ultimi vedono l’aumento dei prezzi come un autentico dramma. [ …] Oggi molti Paesi dell’Asia, dell’America Latina, e anche dell’Africa conoscono uno sviluppo sociale, che in alcuni casi è notevolissimo. [ …] Per contro, le disuguaglianze sono aumentate all’interno delle società. Dunque il ragionamento sull’incremento degli squilibri va riferito più alle singole società che al divario tra gli Stati." Quindi, l’instabilità è la caratteristica di ogni società, e non ci sarà crescita economica complessiva degli Stati in grado di assicurare vantaggi reali alle classi più povere. Questo economista borghese propone poi le sue ricette (un organismo internazionale che crei riserve di materie prime, l’indebitamento degli Stati finalizzato agli investimenti, etc), ma c’è da scommettere che nessuna di queste sarà risolutiva.
A giugno è previsto un crollo della produzione dei cereali in Cina (Il Sole 24 Ore, 10.2.11), che potrebbe diminuire di 4 milioni di tonnellate la produzione rispetto a quella del 2010, già in calo dal 2009, mentre i consumi cinesi sono costantemente in aumento. Le riserve globali dei cereali potrebbero scendere di circa il 15%, e la speculazione è già in atto. La crescita dei prezzi complessivi si farà sentire in modo forte dove già ci sono difficoltà economiche; le conseguenze politiche potrebbero interessare proprio (ma non solo) i Paesi coinvolti nel marasma del Nord Africa.
Ovviamente al momento non siamo in grado di prevedere quello che potrà succedere. Facciamo i conti comunque con l’assurdo paradosso che – stante l’attuale sistema economico-sociale - la maggior parte della popolazione può essere costretta alla fame, proprio quando ci sarebbero i mezzi scientifici e sociali per evitarlo. E abbiamo comunque una certezza: il sistema economico capitalistico mette tutto il mondo nelle condizioni di sedere sopra una polveriera, che nessuno è in grado di tenere sotto controllo.