La forza dei lavoratori sul piatto della bilancia

Gli analisti economici che ancora mantengono uno straccio di onestà intellettuale riconoscono che nessuno può fare previsioni attendibili nemmeno su quello che accadrà nell’arco dei prossimi dodici mesi. “Nessuno sa che cosa succederà nel mondo del denaro dopo un 2011 di pathos, passione e paura” ha scritto il caporedattore del Wall Street Journal. Ma qualunque sorpresa abbia in serbo la finanza internazionale, per quelli che denaro ne hanno poco o non ne hanno affatto, è certo che la crisi si aggraverà. Per rimanere all’Italia, pare ormai certo che l’anno appena iniziato si concluderà con un consuntivo amaro: almeno 800 mila posti di lavoro persi dall’inizio della crisi. La “riforma” del mercato del lavoro annunciata da Monti aiuterà probabilmente questa cifra ad avvicinarsi al milione.

Governo “tecnico” o meno, quindi, continua la serie delle chiusure, delle ristrutturazioni, dei licenziamenti, delle delocalizzazioni… gli ottocento lavoratori delle cuccette e dei vagoni letto dei treni notte che Trenitalia vuole cancellare, gli operai delle tante cooperative che fanno rimpinguare i profitti della Esselunga e ai quali si vuole imporre un sistema di lavoro semischiavistico, gli operai della Fincantieri, minacciati da una ristrutturazione che eliminerebbe centinaia di posti di lavoro, le operaie della Omsa che si vedono sparire il posto di lavoro perché l’azienda ritiene più profittevole sfruttare le operaie della Serbia, l’elenco potrebbe allungarsi fino a riempire centinaia di pagine.

Ogni storia è diversa nel punto di partenza e uguale nelle conclusioni. Nelle imprese più grandi i lavoratori hanno trovato la forza di lottare. Si può essere sicuri che a nuovi licenziamenti e a nuove chiusure seguiranno nuove lotte.

Ma il problema che si pone con sempre maggiore insistenza, date le dimensioni dell’attacco alle condizioni operaie, è: si possono unire le forze? Si può trovare un terreno comune su cui sviluppare una lotta generale? Si può mettere sul piatto della bilancia il peso dei milioni e milioni di lavoratori salariati che sono il vero motore dell’economia e senza i quali nessuna ricchezza si potrebbe produrre?

La risposta è proprio nel numero sempre maggiore di operai e di imprese interessate e nella varietà delle situazioni di partenza. Le possibilità di successo di una difesa azienda per azienda diminuiscono con l’estendersi e l’aggravarsi dell’ondata di chiusure, ristrutturazioni e licenziamenti.

All’ordine del giorno, pure con tutte le difficoltà pratiche che questo comporta, c’è la difesa complessiva della classe lavoratrice, del suo reddito, della sua stessa esistenza.

Ecco che il terreno comune è dato da obiettivi che rispondano a interessi comuni per perseguire i quali l’unità della classe è indispensabile. Non si può più tollerare che la vita dei lavoratori dipenda dai capricci del mercato. Se i padroni chiudono gli impianti per “razionalizzare” la produzione spostandola all’estero o concentrandola in un numero più piccolo di unità produttive, se semplicemente decidono che sia più lucroso investire in borsa o ottenere finanziamenti pubblici agitando lo spauracchio dei licenziamenti, non c’è nessun motivo per adeguarsi ai loro piani. In ogni caso, dobbiamo vivere! E vivere dignitosamente. Ecco perché il salario garantito deve figurare oggi al primo posto tra le rivendicazioni generali necessarie.

Gli operai della Fincantieri, in questi giorni, rivendicano una spartizione del lavoro fra i vari cantieri del Gruppo. È un modello da seguire. Adattato alla struttura produttiva nazionale, realizzato per singoli grandi gruppi, per categorie, per territori…, questo obiettivo è la giusta risposta ad ogni ulteriore taglio di posti di lavoro. Lavoro e salario, a questo si riducono i diritti dei lavoratori nel capitalismo. Questi diritti, che lo stesso capitalismo nega oggi così sfrontatamente, ora dobbiamo esigerli !