La crisi economica si abbatte sul settore auto

Cassa integrazione e disoccupazione in crescita, salari in discesa. Ma per i padroni continua a esserci un solo imperativo: salvare i profitti


La crisi finanziaria scoppiata nell’estate del 2007 non ha tardato a rivelare la sua vera natura. Solo gli economisti più sprovveduti l’hanno considerata alla stregua di un tumore benigno la cui rimozione avrebbe permesso all’organismo di generare nuovi anticorpi. Il capitalismo avrebbe potuto riprendere così la sua corsa al profitto con rinnovato slancio. Ma i santoni più avveduti del tempio dell’economia borghese, pur senza voler o poter riconoscere la natura genetica di un cancro presente nello stesso DNA del capitale, si sono presto resi conto che la crisi dei subprime, se non arginata in tempo, avrebbe generato effetti a catena su tutte le branchie dell’economia a livello mondiale. I guaritori più illustri, in preda al panico, sono subito accorsi al capezzale del malato grave che, solo fino a pochi mesi prima, ai loro occhi, era parso in buona salute e capace di dare prova di longevità. Dopo un breve consulto, il responso è stato unanime: il ricostituente del liberismo doveva essere immediatamente integrato con una “nuova” cura, vale a dire gli aiuti di stato. Il bisturi ha cominciato ad operare sul tumore bancario estirpando i settori del credito meno vitali e iniettando potenti antibiotici a quelli nevralgici per l’organismo. Dove il male era più invasivo, come nel caso delle grandi società finanziarie degli USA e della Gran Bretagna, sono state iniettate centinaia di miliardi di dollari e di sterline per cercare di impedire il tracollo dell’intero sistema creditizio.

Ben presto la cura, se non peggiore del male, si è rivelata un mero palliativo e le metastasi si sono rapidamente propagate in tutti gli organi vitali del paziente. Il contagio si è esteso in tutto il mondo dal credito all’edilizia, al commercio, ai servizi, all’industria. Di nuovo il bisturi degli apprendisti-stregoni è calato sui settori più deboli e meno strategici. Una miriade di piccole e medie imprese ha chiuso i battenti lasciando sul lastrico decine di migliaia di lavoratori con le loro famiglie. Di nuovo si è fatto ricorso a potenti iniezioni di denaro pubblico, soprattutto a favore dell’industria americana dell’auto, uno dei settori più invasi dalle metastasi. Negli USA le vendite auto, nel 2008, sono scese del 40% e la quota di mercato yankee è scesa al di sotto del 50% (record storico). Il Tesoro americano non ha esitato, pur in contrasto con lo stesso Congresso, a sbloccare 4 miliardi di dollari per General Motors e altrettanti per la Chrysler. La stessa GM, a fine gennaio, beneficerà di altri 5,4 miliardi. Alla Ford andrà un’apertura di credito di 9 miliardi. Persino l’ultra-liberista Bush non ha potuto sottrarsi alla necessità di soccorrere le “tre sorelle” dell’auto yankee, perno di un sistema obbligazionario di circa 1000 miliardi di dollari costituito da un portafoglio di fondi pensione, banche, enti locali, ecc. Se questi colossi dovessero fallire, i loro titoli diventerebbero carta straccia e le conseguenze per l’economia americana, e non solo, sono facilmente immaginabili.

Mito e realtà del “New Deal” di Roosevelt

Obama non ha neppure atteso la data del suo insediamento a nuovo presidente degli USA per proporre la sua ricetta contro la crisi economica. Qualcuno l’ha già paragonata al New Deal rooseveltiano degli anni trenta: 775 miliardi di dollari da investire in energia rinnovabile, nella ricostruzione di infrastrutture come scuole, ponti, strade e ospedali, in assistenza sanitaria e in tagli delle tasse in busta paga. Per vecchi mali, dunque, antiche ricette di cui la storia ha mostrato l’inefficacia senza prova d’appello. I New Deal del 1933 e del 1935 non solo non misero fine alla crisi economica scoppiata nel 1929, ma colpirono duramente la classe operaia americana, che pagò le “medicine” di Franklin Delano Roosevelt soprattutto con i bassi salari e le restrizioni del diritto di rappresentanza sindacale e di sciopero. La stessa disoccupazione, che il New Deal avrebbe dovuto debellare, restò altissima. La crisi fu risolta, se così si può dire, dalla seconda guerra mondiale, che permise al capitalismo di rigenerarsi mediante una nuova divisione internazionale del mercato.

Se negli anni trenta la crisi rimase, almeno in parte, circoscritta agli USA, oggi, dato il grado di internazionalizzazione del capitale ben più avanzato di allora, essa non può che estendersi nel mondo intero con più rapidità e gravità. Lo hanno capito i governi degli stati dell’UE impegnati, proprio in questi giorni, a trovare il modo di parare i colpi che le loro economie potrebbero subire a causa degli interventi del governo USA a supporto dei trust americani. Altro che libera concorrenza! Nell’UE come negli USA gli aiuti di stato costituiranno per diversi anni lo strumento principale, se non l’unico, per provare a mettere un freno all’altrimenti inevitabile caduta del saggio di profitto, con conseguenti misure di chiaro segno protezionistico.

In Italia, il governo ha già messo in cantiere sostanziosi provvedimenti a garanzia del credito e, seppur con qualche titubanza e ritardo rispetto ad altri governi europei, presto si allineerà alle decisioni dell’UE in materia di aiuti alle industrie automobilistiche nazionali. Il governo Berlusconi è certamente più reattivo alla salvaguardia della piccola e media impresa italiana e alla difesa degli interessi personali del presidente del consiglio, ma resta a pieno titolo il governo di tutta la borghesia, compresa quella appartenente al grande capitale, Fiat in testa, che oggi bussa rumorosamente alle porte della politica per avere anch’essa gli aiuti generosamente elargiti dal governo USA all’industria yankee.

Rincorsa alla cassa integrazione

In questi mesi si è assistito ad una corsa alla richiesta di cassa integrazione da parte di aziende tuttora in ottima salute, che hanno approfittato della crisi internazionale per battere cassa. Detto questo, la crisi c’è in tutta la sua gravità, anche se gli effetti più devastanti devono ancora manifestarsi. La Commissione UE stima che nel 2009 il tasso di disoccupazione nei 27 paesi dell’Unione salirà all’8,7%, vale a dire 3 milioni e mezzo di lavoratori in più saranno senza lavoro. E in Italia andrà ancora peggio. Le stime dicono che si passerà dal 6,7% del 2008 all’8,2% del 2009 e all’8,7% del 2010. Resta il fatto che il 2008 è stato, nel nostro paese, il peggiore per ciò che riguarda le vendite auto: -13,36% rispetto all’anno precedente con 2.160.131 vetture immatricolate contro i 2,49 milioni del 2007. E il 2009 è foriero di un vistoso peggioramento della situazione. Il CSP, Centro Studi Promotor, segnala che «il 2009 potrebbe raggiungere un volume di immatricolazioni di 1.850.000 unità con un calo del 14,4% sul 2008».

E i padroni fanno pagare i costi di questa crisi, come di ogni altra, ai lavoratori. In dicembre la cassa integrazione nell’industria e nell’edilizia è cresciuta del 110,28% (nella sola industria +129,66%) rispetto al dicembre 2007. Nel 2008 la cig negli stessi settori è aumentata del 24,56% (+27,04% nella sola industria) rispetto al 2007.

Il ministro del Welfare Sacconi, nella trasmissione televisiva “Porta a Porta” ha annunciato che la sola cig ordinaria è cresciuta del 525% in un anno. Un annuncio che ha indotto la CGIL a criticare il fatto che dall’agosto scorso l’INPS non comunica più alcuna cifra, ma è il ministro di turno a farlo. Alla faccia della trasparenza!

E’ chiaro, in ogni caso, che l’aumento della cig è in crescita progressiva. La provincia di Torino è emblematica a tale proposito. L’Unione Industriale riferisce che in dicembre 200 aziende hanno richiesto la cig ordinaria. E l’API, associazione delle piccole e medie imprese, segnala che dall’ottobre scorso la media giornaliera delle richieste è di 30 al giorno, mentre prima era di una ventina al mese. E’ una crisi che investe tutti i settori dell’industria torinese, non solo l’auto, per quanto sia proprio l’indotto di questa a registrare il picco più alto relativamente al calo degli ordini. Le cifre fornite dalla Fiom, d’altronde, parlano chiaro. In tutto il 2008 le aziende che hanno chiesto cig ordinaria sono state 627 con 39.373 lavoratori interessati su 65.522 addetti. Di queste, però, solo 71 hanno richiesto la cig nel primo semestre. L’impennata, dunque, si è avuta nel secondo semestre con 556 aziende richiedenti la cig e 37.729 lavoratori interessati su 60.819 addetti, 25 volte il numero del primo semestre. Nel mese di dicembre il picco: 227 aziende hanno richiesto la cig per 23.847 lavoratori su 44.000 addetti. Se pensiamo, come abbiamo detto prima, che molte di queste hanno approfittato del vento di crisi mondiale per attingere al pozzo di denaro pubblico, pur continuando a registrare utili significativi, possiamo facilmente immaginare cosa accadrà nei prossimi mesi, se la crisi dovesse esplodere in tutta la sua pienezza.

Agli operai niente aumenti, agli azionisti buoni dividendi

Tra queste imprese fameliche, manco a dirlo, la Fiat figura tra le prime in graduatoria. Basti ricordare che, sia a dicembre sia in tutto il 2008, la casa del Lingotto ha aumentato le proprie quote di mercato pur in un contesto decisamente negativo per l’auto a livello mondiale.

Le vetture vendute nell’anno dalla Fiat in Europa sono state 1.120.000 (-6,2%), ma la quota è aumentata di 0,2 punti percentuali (l’8,3% contro l’8,1% del 2007). Il gruppo migliora la quota ovunque: in Italia (+0,5%), in Gran Bretagna (+0,1%), in Germania (+0,5%) e in Francia (+0,8%). In questi due ultimi paesi crescono pure le vendite (+12,8% in Germania, +23,9% in Francia). Nel mese di dicembre la quota Fiat in Europa è cresciuta di 0,4 punti percentuali (dal 7,6% all’8%) con circa 67.000 immatricolazioni. Il gruppo torinese si è così attestato, sia in dicembre sia nell’anno, al quinto posto tra i costruttori presenti nel continente.

Nel mondo la Fiat ha venduto nel 2008 circa 2.100.000 vetture, 200.000 in meno rispetto all’anno precedente. Ma in Brasile il gruppo ha mostrato di essere in piena salute con una crescita delle vendite dell’8,3% sul 2007 e con una quota del 24,6%.

Lo stato di salute della Fiat non pare dunque giustificare il ricorso massiccio alla cig da settembre ad oggi, con i lavoratori lasciati a casa ripetutamente e privati addirittura del rateo di tredicesima (dai 100 ai 150 euro in meno). Insomma la classica “ciliegina sulla torta” per gli operai, che in questi mesi hanno visto la busta paga assottigliarsi sempre di più e spesso non superare i 700-750 euro al mese. E se l’azienda da un lato definiva «non compatibile con il quadro recessivo» la richiesta sindacale di 2200 euro di aumento in quattro anni del premio di risultato, richiesta inserita nella piattaforma per il contratto integrativo, dall’altro confermava la ripartizione dei dividendi agli azionisti con una elargizione di oltre 500 milioni di euro. Senza contare che, sinora, la cassa ha interessato i lavoratori delle carrozzerie, mentre le produzioni dei motori e dei cambi hanno continuato a tirare a pieno regime. E’ singolare che i motori vengano prodotti a tutto spiano mentre si ferma la lavorazione delle auto finite. Una ragione in più per pensare che la Fiat abbia richiesto la cassa integrazione quando si è resa conto che il governo temporeggiava sugli aiuti al settore auto in attesa di una decisione in merito da parte dell’UE.

I lavoratori pagano, in buona sostanza, il “braccio di ferro” tra azienda e governo con raffiche di cig, già programmata fino all’8 febbraio. 28.000 operai, a cui si devono aggiungere 2000 impiegati degli Enti Centrali in cassa dal 2 all’8 febbraio, per la prima volta lasciati a casa dall’inizio della crisi. Nello stesso periodo 200.000 lavoratori dell’indotto subiranno la stessa sorte. A tutto ciò si aggiunge la drammatica situazione dei precari. I contratti dei lavoratori interinali e di quelli a termine non più rinnovati dal settembre scorso sono ben 5.000.

In Fiat non è solo il settore auto a fermarsi. La cig coinvolge ormai anche l’Iveco (camion), la Sevel (furgoni) e la Cnh (macchine movimento terra). A portare altre nubi all’orizzonte ci sono infine le dichiarazioni dell’a.d. Marchionne su possibili e auspicabili alleanze con forti, ma non meglio precisati, partner stranieri. L’incertezza a questo proposito regna sovrana e già si teme che dietro la parola “alleanze”, in un contesto di crisi come quello attuale, si celi la volontà di cedere pezzi del gruppo.

I sindacati: tutti allineati e coperti?

La classe operaia rischia di pagare un durissimo prezzo per una crisi di siffatte proporzioni, una crisi provocata dal sistema capitalistico, non certo dagli operai. Le risposte delle burocrazie sindacali sono, ancora una volta, inadeguate e lasciano i lavoratori disarmati di fronte ad un attacco che si annuncia pesantissimo. Cisl e Uil appaiono totalmente allineate al fronte padronale facendo addirittura propria la proposta del ministro Sacconi per una riduzione dell’orario a meno salario, sottoscrivendo intese con il governo per i rinnovi contrat6tuali del pubblico impiego al di sotto dell’inflazione, rifiutando di aderire agli scioperi indetti dalla Cgil in questi mesi. Quest’ultima, peraltro, si limita a rivendicare un ampliamento della platea di lavoratori aventi diritto agli ammortizzatori sociali ed una generica richiesta di aumenti salariali.

La linea di maggior fermezza ostentata dalla Cgil è dunque finalizzata più a riconquistare un ruolo al tavolo del governo da cui è stata estromessa, che non dalla necessità di rilanciare una lotta d’insieme del mondo del lavoro su obiettivi concreti e ben definiti per difendere e migliorare le condizioni di lavoro. Gli stessi scioperi generali, come quello del 12 dicembre scorso, rischiano di diventare un’arma spuntata se usati come lotte-sfogatoio e non come mobilitazioni a supporto di una piattaforma rivendicativa all’altezza dello scontro in atto.

La Fiom e la Cgil-Funzione Pubblica hanno dichiarato una giornata di sciopero nazionale con manifestazione a Roma per il 13 febbraio. E’ un’iniziativa quanto mai opportuna, anzi doverosa in un momento di così grave attacco ai salari e ai posti di lavoro. Tanto più che si tratta di uno sciopero che unifica una categoria del settore privato con un’altra di quello pubblico. Ma se anche questo appuntamento di lotta non avverrà su rivendicazioni per le quali i lavoratori siano disposti a lottare fino in fondo, tra le loro fila aumenterà la demoralizzazione e la sfiducia nelle proprie forze. E la responsabilità della sconfitta ricadrà tutta, ancora una volta, su chi ha subordinato le esigenze dei lavoratori agli interessi dei padroni rendendosi loro complici pur di garantire la tenuta dei profitti.