Che significato ha la crisi del PD e quella più generale del sistema dei partiti? Si può dire, intanto, che è forse l’ultimo fotogramma di un film cominciato già molti anni fa. Dal punto di vista sociale, si spiega con gli effetti di una ristrutturazione di dimensioni mondiali che ha cambiato le proporzioni degli strati sociali all’interno di ogni paese, riducendo di molto, in casi come quello italiano, la componente dei dipendenti delle grandi imprese, tradizionalmente organizzati dai sindacati e legati politicamente ai partiti di sinistra. A questo si aggiunge la rovina di consistenti settori di artigiani, piccoli commercianti e anche piccoli industriali.
Oltre a questo, l’arretramento del welfare ha lasciato senza tutele masse crescenti di lavoratori che la crisi iniziata nel 2007-2008 ha espulso dalle imprese. Nello stesso tempo, le giovani generazioni si sono trovate in un mercato del lavoro completamente selvaggio, fuori da ogni tutela, dove gli imprenditori, anche nella forma di amministrazioni pubbliche e semi-pubbliche, calpestano ormai, servendosi di un sistema di leggi che lo consente, anche i minimi diritti dei lavoratori. La povertà incalza anche settori di società che se ne ritenevano immuni. A questo si aggiunge il flusso di immigrati, nelle sue dimensioni reali ancora largamente gestibile, ma che la cronica inefficienza della burocrazia italiana rende cento volte più drammatico, rafforzando la percezione che si tratti di un’invasione vera e propria.
I partiti arrancano dietro a questi fenomeni, cercano di recuperare il consenso di masse scontente e confusamente “anti-sistema”, ma per il momento nessuno riesce a divenire un partito egemone: il PD sta perdendo i pezzi, Forza Italia tenta la resurrezione della mummia Berlusconi perché non ha nessun altro leader che lo possa sostituire, la Lega raccoglie consensi ma non vuole condividerli con Berlusconi, i Cinque Stelle sono ancora universalmente considerati inaffidabili come partito di governo e hanno contro tutti gli altri, tutti i vari pezzetti di sinistra usciti dal PD non si sa che fine faranno, mentre Sinistra Italiana è ben lontana da poter rappresentare un grande contenitore di consensi elettorali. Il probabile ritorno a un sistema elettorale proporzionale incoraggia nuove scissioni e favorisce il fiorire di cricche, clan, “aree” organizzate, con i loro capi e capetti.
La crisi politica iniziata con gli anni ’90, con il terremoto giudiziario di “Tangentopoli”, non è mai veramente finita. Da allora sono passati anni di tentativi di ricostruzione di un sistema politico che garantisse alla borghesia la stabilità dei governi, passando necessariamente dal controllo sulle masse e dalla cattura del loro consenso elettorale con nuovi leader, nuovi partiti, nuovi slogan. Ora, a quanto pare, siamo punto e a capo.
I gruppi e le correnti minoritari che, da sempre, stanno sul terreno del marxismo, hanno molto da dire su questa situazione e, diversamente da tutti gli altri, hanno idee chiare e spiegazioni precise da offrire su quanto sta succedendo. Non hanno bisogno di rincorrere l’ultimo sociologo alla moda, non si stupiscono di quanto accade perché largamente comprensibile con gli strumenti scientifici della sociologia marxista. Ma, appunto, sono una piccola minoranza, che non è ancora riuscita a far diventare la prospettiva rivoluzionaria una forza politica reale, con una salda e sufficientemente larga base sociale.
La crisi politica, quindi, è ancora una questione che si gioca nel campo della borghesia capitalistica e dei suoi sostenitori e portavoce. Il richiamo sempre più insistente alla “stabilità” che viene dagli organi di stampa più accreditati, dal Corriere della sera al Sole 24 Ore, da La Stampa a La Repubblica, riflette le preoccupazioni di questa classe e delinea i limiti tollerati delle oscillazioni politiche. Per via parlamentare o meno, una “stabilità” gradita alla grande borghesia dovrà essere trovata. In vista c’è la già annunciata fine del quantitative easing, cioè di quel meccanismo che consente praticamente alla BCE di stampar moneta, acquistando i titoli di stato dei vari paesi dell’Unione. Gli esperti spiegano che è grazie a questo meccanismo, che costituisce per gli “investitori” la migliore garanzia di solvibilità dei buoni del Tesoro, che il debito pubblico italiano non è esploso e prevedono catastrofi nel caso in cui al venir meno di questo, probabilmente alla fine dell’anno, si aggiungesse una situazione di ingovernabilità.
Dunque, si ripeterà lo scenario che portò al governo Monti? Il pericolo di una catastrofe economica, abilmente esagerato ed amplificato dai mezzi di informazione e scimmiescamente riproposto da giornalisti e “intellettuali”, aprirà la strada a un nuovo governo di “salvezza nazionale” nel 2018? Probabilmente nelle segreterie dei partiti se ne sta già discutendo e, alla fine, potrebbero essere molti quelli che lo giudicano il male minore, un modo per farsi cavare le castagne dal fuoco.
R.Corsini