LA CORTE COSTITUZIONALE FA DA SUPPLENTE

A dieci anni dall'approvazione del Dlgs n. 23/2015, e a poco più di un mese dal fallimento dei referendum che ne prevedevano la modifica, la Corte Costituzionale inopinatamente si sveglia, e si accorge che qualcosa non va nei risarcimenti per illegittimo licenziamento. Piovono sassolini dalla frana del Jobs Act. Da una lotta seria forse sarebbero caduti massi.

Bene, la Corte Costituzionale, con sentenza 118, ha risposto con i suoi mezzi al secondo quesito posto dai referendum dell'8 e 9 giugno scorso, affermando che è incostituzionale il tetto delle sei mensilità per l’indennità risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese con meno di 16 dipendenti. Ricapitolando, l'articolo 9 comma 1 del famigerato Jobs Act stabilisce che, qualora l'azienda che agisce un licenziamento illegittimo abbia meno di 16 dipendenti, l'ammontare delle indennità di risarcimento è limitata a sei mensilità rispetto all'ultima retribuzione. Oggi, a quanto pare, la Corte Costituzionale certifica che trattasi di un provvedimento incostituzionale. Perché mai ci siano voluti dieci anni di meditazione, comprensivi di raccolta firme per la promozione di referendum e celebrazione dei referendum stessi, per arrivare a questa conclusione, non è dato sapere. A quanto pare, solo ora la Corte Costituzionale si è accorta che il requisito del numero dei dipendenti “non costituisce l’esclusivo indice rivelatore della forza economica dell’impresa e quindi della sostenibilità dei costi connessi ai licenziamenti illegittimi”. Questa norma infatti esercita un limite alla valutazione del giudice, che è impossibilitato a misurare l'adeguatezza del risarcimento sul caso specifico e a esercitare inoltre un'azione deterrente sull'abuso del datore di lavoro. A questo punto la Consulta auspica di conseguenza un nuovo intervento legislativo che modifichi la norma attuale, tenendo conto anche del fatto che il numero di dipendenti non è l'unico indice di forza dell'impresa nemmeno nella legislazione europea...forse perché il fenomeno delle piccole e piccolissime imprese non è così diffuso e ricorrente all'estero da prevedere a loro favore una legislazione apposita.

Laconico il commento della deputata e responsabile Lavoro del Pd, Maria Cecilia Guerra: “La Corte costituzionale certifica le ragioni dei promotori e dei 13 milioni di cittadini che hanno votato il referendum per rimuovere il tetto di 6 mensilità alle indennità per licenziamenti illegittimi nelle imprese con meno di 15 dipendenti. Erano dalla parte giusta. La Corte lo ha fatto usando le stesse motivazioni per cui quel referendum era stato promosso”. Un'affermazione interessante da parte di un'esponente del partito che a suo tempo propose e approvò proprio quella norma, che oggi la Consulta definisce incostituzionale. Per la cronaca (e anche per la storia), non va dimenticato che il suo partito non era “dalla parte giusta”.

Il segretario della Cgil Maurizio Landini si dice compiaciuto: “Era esattamente la richiesta che facevamo noi con il referendum. Questo pone la necessità di rimettere al centro della discussione sociale e politica di questo Paese il lavoro, la condizione di vita e di lavoro delle persone e i giovani”. (Corriere della Sera, 22.7.25). In realtà non era necessaria e non sarà nemmeno sufficiente una sentenza della Corte Costituzionale per realizzare questi compiti, oggetti esclusivi di rivendicazione e di lotta proprio della frazione di società a cui fa riferimento. Caso mai, se un messaggio se ne può evincere, è quanto sarebbe stato possibile ottenere con una lotta seria e mirata, visto che dopo dieci anni qualcosa di quella legge fa acqua.

Tra l'altro, non è detto - anzi – che l'offensiva governativa si interrompa o abbia intenzione di farlo. E' di pochi giorni fa il tentativo del senatore Salvo Pogliese di Fratelli d'Italia di inserire nel decreto “Ilva” sulle crisi d'impresa una norma che di per sé non c'entra nulla, una cosiddetta “norma minotauro”, che serve per far passare abusivamente una truffa nascondendola in un provvedimento per altra materia. L'emendamento, poi ritirato riservandosi di inserirlo in un provvedimento più articolato, vista la difficoltà di approvazione in tempi brevi, si propone di rendere più difficile per un lavoratore ottenere da un datore di lavoro inadempiente tutti i compensi dovuti. A oggi il lavoratore può intentare causa per rivendicare quanto gli è dovuto, e non gli è stato erogato, entro cinque anni dalla cessazione del rapporto di lavoro. Questa norma, del 1966, parte dalla ovvia considerazione che far causa mentre si è ancora dipendenti comporta grossi rischi, dal demansionamento al licenziamento, e comunque compromette le relazioni sul posto di lavoro. Con la modifica proposta, la decorrenza dei cinque anni scatta da subito, anche durante il rapporto di lavoro, e i termini della prescrizione non si interrompono con la comunicazione del lavoratore al datore di lavoro (per es., se non ha avuto l'erogazione di straordinari o la tredicesima, se è stato sottopagato, etc.): il lavoratore dovrebbe far partire entro 180 giorni anche la causa civile. Ergo: come assicurare l'impunità ai padroni e rendere difficile (impossibile?) rivendicare adeguata retribuzione.

Aemme