Giochi fatti in Cgil, dove la consistenza numerica dei consensi – veri o presunti - alla mozione Epifani spiana la strada a un successore di gradimento dell’attuale Segretario Generale, e a una politica conseguente.
Esaurite le assemblee congressuali di base, a buon punto i congressi provinciali, in dirittura di arrivo quelli regionali, sia delle categorie che del confederale, non è prematuro tracciare un primo bilancio del 16° Congresso Cgil. Considerando il momento drammatico che sta attraversando la classe operaia, si può affermare che il livello del dibattito e della rappresentanza, che in questo ambito poteva riguardare solo gli aspetti strettamente sindacali, come minimo si è dimostrato inadeguato.
Era difficile comunque immaginare il contrario, visto come sono stati impostati gli schieramenti congressuali e vista la storia degli ultimi cinque anni che separano la Cgil dal congresso precedente. Nonostante il sindacato più rappresentativo in Italia non abbia firmato l’accordo sulla riforma del modello contrattuale, alcune categorie Cgil hanno successivamente firmato contratti nazionali che sostanzialmente recepiscono quell’accordo, e prima – a governo Prodi in carica – la Cgil aveva firmato l’accordo sul welfare che attaccava pesantemente pensioni e stato sociale. Anche durante le assise congressuali si è assistito spesso a un curioso dualismo tra dichiarazioni roboanti e orgogliose affermazioni identitarie, a confronto invece con una pratica che, molto pragmaticamente, lascia spazio a quello che si può fare, o meglio a quello che le controparti lasciano fare. In pratica, una cosa sono le dichiarazioni di principio e i gloriosi trascorsi, nettamente un’altra la pratica del quotidiano: sono constatazioni più o meno candidamente ammesse anche in qualche relazione ufficiale. La scarsa reattività della classe e la sua sostanziale passività sembrano costituire un comodo e bene accetto alibi, un conveniente pretesto, che giunge come una manna insperata sull’insipienza e l’immobilismo di un gruppo dirigente molto più avvezzo - e di sicuro più incline – a baloccarsi con le faide interne e le lotte di poltrona piuttosto che a organizzare lotte operaie. Quindi le scelte compiute, le carenze organizzative, la mancanza di incisività, la direzione ondivaga, l’assenza di chiarezza, si fanno risalire a cause estranee alla espressa volontà del gruppo dirigente o alle qualità dei funzionari, e si dichiarano genericamente relative a un mondo cambiato, a esigenze diverse, a scarsa rispondenza tra i lavoratori, etc. etc. In sostanza, se la Cgil assomiglierà sempre di più a una grande Cisl, dipenderà dal fatto che proprio questo vogliono i lavoratori. Per avvalorare questa tesi non si è andati troppo per il sottile, giungendo nella maggior parte dei casi a completare l’opera di epurazione, già cominciata nel 2005, dei soggetti meno controllabili e più riottosi a seguire supinamente la linea della maggioranza. D’altronde qualsiasi linea politica viaggia sulle gambe di chi la mette in atto, e se una tendenza va affermata, chi non è d’accordo non può essere della partita.
Questo obiettivo è stato perseguito con estrema determinazione, a partire soprattutto dalle Assemblee di base. Dove, come del resto ci avevano abituato le recenti vicende tipo il referendum sull’accordo welfare, abbiamo assistito al consueto spiegamento di forze, e a una diligenza nell’organizzazione del consenso sicuramente degna di miglior causa. Inutile dire che si è visto di tutto, in particolare dove mancava il relatore di minoranza: assemblee contrabbandate per adunanze oceaniche in posti di lavoro dove in genere i lavoratori disertano le riunioni, valanghe di votanti, votazioni bulgare per il documento di maggioranza; in definitiva il consueto armamentario fatto passare come Grande Prova di Democrazia. In realtà la maggior parte dei lavoratori, spesso anche quelli che hanno partecipato alle assemblee, oltre ad avere un’idea abbastanza vaga degli argomenti, hanno un’attenzione molto blanda per il congresso Cgil, dato che percepiscono in modo molto più immediato le problematiche dei posti di lavoro, e faticano a vedere un nesso tra queste e le vicende congressuali. D’altronde, la maggior parte dei funzionari e dirigenti sindacali ha tutto l’interesse a non rendere i lavoratori particolarmente attivi, e a difendere in prima istanza la propria posizione. Questo "ventre molle" non vede l’opportunità di complicarsi la vita sollecitando la partecipazione dei lavoratori alla difesa dei propri interessi con la combattività e il conflitto, ma tende a vivacchiare da buon burocrate e non ama essere disturbato nel suo quieto vivere.
La minoranza stessa in questo Congresso era un animale strano: una poco congruente mescolanza tra l’anima più sinceramente combattiva della Cgil e spezzoni di apparato mossi da logiche di bottega. I primi non avevano oggettivamente una forza sufficiente per presentarsi con un programma e un documento autonomi; i secondi hanno teso a condizionare i primi, arrivando al compromesso di un documento zoppo, che non accontentava né gli uni né gli altri, e che i sostenitori della mozione 1, quella di maggioranza, hanno avuto buon gioco a definire troppo simile al loro.
A questo punto, se c’è un frutto più avvelenato degli altri che può venire da questo Congresso, è che la sconfitta della mozione 2, sostenuta dalla cordata Moccia-Podda-Rinaldini, ma anche dalla Rete 28 Aprile di Cremaschi, verrà presentata come una porta aperta alle forze più conservatrici in Cgil, e in pratica come un’adesione dei lavoratori alla linea di collaborazione con Cisl e Uil.
I lavoratori più coscienti, e fra loro i più giovani che si avvicinano per la prima volta al sindacato, hanno già avuto occasione di rimanere delusi dalle manovre che hanno visto compiere e da ciò che nasconde la facciata del sindacato in teoria più forte e combattivo. L’auspicio è che non ne siano scoraggiati, ma che ne ricavino invece maggiori energie per le battaglie del futuro.