Iran: la contestazione non è finita

Dopo dieci giorni di manifestazioni che contestavano il loro potere, i dirigenti della repubblica islamica d'Iran hanno detto che era “la fine della sedizione”. Nonostante questa dichiarazione autoconsolatoria e i commenti dei media occidentali, non è detto che il movimento di contestazione sia stato davvero sconfitto.

I numerosi video inviati sulla rete sociale Telegram, molto utilizzata in Iran nonostante la censura del regime, hanno mostrato che le manifestazioni continuavano, in particolare nella regione del Khuzistan. In molte città i funerali delle vittime si sono trasformati in manifestazioni. Ma la contestazione assume forme diverse: graffiti sui muri del tipo “a morte il dittatore”, distruzioni dimostrative delle fatture di gas o elettricità per segnare il rifiuto di pagare un centesimo allo Stato. Chiamate allo sciopero sono state lanciate da sindacati indipendenti, in particolare negli impianti petroliferi di Assalouyeh o anche nell'industria saccarifera. Se è difficile misurare l'ampiezza di questi atti di contestazione, questi dimostrano almeno che la repressione stenta a farli tacere.

A differenza del 2009, dopo la contestata rielezione di Ahmadinejad alla presidenza, la protesta viene dai lavoratori, dai contadini, dal popolo delle città di provincia, alle quali le fazioni conservatrici del regime si sono appoggiati in passato. Oltre alle rivendicazioni economiche, contro i salari non pagati, il carovita, il ribasso degli aiuti, la disoccupazione massiccia, la deviazione dell'acqua a profitto dei proprietari ricchi, coloro che hanno preso il rischio di scendere in piazza se la sono presa con gli esponenti del regime. Prendendo di mira istituzioni religiose ed edifici pubblici, strappando i ritratti giganti del guida della rivoluzione Ali Khamenei e di altri dignitari, denunciando i loro privilegi ed il loro nepotismo.

Un regime profondamente screditato

Coloro che saccheggiano i beni dello Stato e predicano la morale anche a colpi di frusta, offrono sinecure ai loro protetti. Messaggi denunciano la fortuna dell'ayatollah Khamenei, stimata dall'agenzia Reuters a 95 miliardi di dollari, realizzata grazie alle sue partecipazioni nelle imprese pubbliche, e scherzano sui pagamenti al suo figlio Mojtaba. L'inerzia delle autorità in occasione del terremoto di Kermanshah, nel novembre scorso, dove i soli aiuti ai sinistrati sono venuti dalla solidarietà popolare, ha finito di screditare il regime. Segno della preoccupazione di quest'ultimo, la repressione è stata condotta più dalla polizia che non dai pasdaran, i guardiani della rivoluzione islamista, che godevano ancora in questi anni di un sostegno popolare. Certi video mostrano membri dei bassidjis, le milizie di regime che reclutavano poveri, bruciare dimostrativamente la loro carta di membro, rammaricandosi di avere fatto da servi al regime stesso.

È vero che esistono rivalità tra le diverse fazioni della dittatura, essendo i bassidjis ed i pasdaran legati ai più conservatori mentre la polizia è maggiormente sotto il controllo del “riformatore” Rohani. Ma questi atti di ribellione vanno oltre. Superate dalla sommossa, tutte le fazioni hanno stretto le file per soffocarla. Sembra che il regime abbia perso parte del sostegno popolare che gli aveva permesso di superare la contestazione del 2009, venuta soprattutto dalla piccola borghesia urbana. Anche se si è ben lungi dal potere concludere che i suoi giorni siano contati, questa sommossa è un avvertimento.

I dirigenti occidentali non si sono sbagliati. Se Trump ha tweettato che “i regimi d'oppressione non possono durare eternamente”, Macron ha chiamato Rohani per raccomandargli il dialogo, pur assicurandogli la sua solidarietà come governo. Anche se i dirigenti imperialisti non mancano un'occasione per criticare il regime iraniano, hanno motivo di preoccuparsi molto di più per le conseguenze che potrebbe avere un potente movimento di contestazione sociale.

X.L.