La parziale riapertura della rete Internet il 23 novembre, dopo cinque giorni in cui era stata interrotta dal regime, ha rivelato la brutalità della repressione contro la popolazione iraniana, la cui rivolta è cominciata con la protesta contro l'aumento del prezzo della benzina.
Secono Amnesty International i morti sarebbero stati 143, mentre secondo altre fonti sarebbero 200. Spari diretti o da elicotteri sulla folla, cecchini in agguato sui tetti: i Pasdaran, guardiani della rivoluzione islamica, hanno usato metodi da guerra contro la popolazione. Almeno 4000 manifestanti e decine di attivisti noti per la loro opposizione al regime sono stati arrestati. I feriti hanno evitato l'arresto solo grazie all'intervento di privati che li hanno accolti e nascosti. Sono stati nominati giudici speciali per rafforzare i tribunali che stanno per pronunciare sentenze capitali.
La brutalità della repressione è all'altezza delle paure dei dirigenti della Repubblica islamica. La rivolta ha coinvolto decine di città in tutto il paese, tra cui Teheran, sia regioni persiane che regioni prevalentemente arabe o curde nella parte occidentale del paese. Centinaia di migliaia di persone si sono ribellate, non "una minoranza di anarchici strumentalizzati dagli Stati Uniti o dall'Arabia Saudita", come ripete il governo, che cerca di organizzare manifestazioni patriottiche del "popolo reale".
L'aumento dei prezzi, del carburante e di tutti i beni di prima necessità, divenuti inaccessibili con il crudele embargo americano, è stato il motivo di partenza. Ma i manifestanti hanno rapidamente denunciato il regime stesso, prendendone i simboli a bersaglio. Alcune manifestazioni sono rimaste pacifiche, come la gigantesca paralisi delle grandi città da parte degli automobilisti. Altre si sono trasformate in ribellione. Decine di stazioni di polizia, banche, centri commerciali appartenenti ai Pasdaran o alla famiglia dell'Ayatollah Khamenei sono stati bruciati.
La rivolta in Iran è tanto più minacciosa per il regime dei mullah, in quanto risuona con quella degli iracheni. In Iraq, i manifestanti denunciano gli sponsor iraniani del governo di Baghdad. Incolpano il generale Soleimani, che comanda la forza di intervento straniero iraniana, dispiegata dall'Iraq verso il Libano e la Siria. In Iran, i manifestanti denunciano i milioni spesi dal governo per questi stessi interventi all'estero. E i manifestanti iracheni hanno applaudito quelli iraniani.
In Iran come in Iraq, la rivolta delle classi lavoratrici, che sopportano gli alti costi della vita, le carenze, l'inquinamento generalizzato, la corruzione diffusa, si rivolge ai politici a portata ed al regime. Dopo 40 anni di esistenza, la Repubblica Islamica dell'Iran mostra segni di usura. La sua base popolare si è indebolita. La denuncia degli Stati Uniti e il nazionalismo, usati senza limiti per unire i poveri dietro i mullah, non sono più sufficienti a far dimenticare la dura vita quotidiana. Ma al di là degli ayatollah o dei ricchi del bazar di Teheran, i lavoratori iraniani, come quelli iracheni, sono prima di tutto vittime del dominio del Medio Oriente da parte delle potenze imperialiste.
Per saccheggiare questa regione e mantenere il loro controllo, questi hanno sostenuto i peggiori dittatori, Reza Pahlavi al potere in Iran prima del 1979 o Saddam Hussein in Iraq, rovesciato quando non era più abbastanza docile. Oggi, mentre infuria la crisi economica, Trump sta affamando gli iraniani per cercare di piegare la Repubblica islamica e sostituirla con un regime che meglio gli convenga. Non è certo, tuttavia, che dovrebbe rallegrarsi per la caduta del regime attuale, tanto reazionario per le donne quanto feroce per i lavoratori, perché un potere realmente controllato da questi ultimi cercherebbe inevitabilmente di porre fine alla dominazione imperialista sulla regione.
X.L