Il referendum in Veneto e Lombardia

Il referendum consultivo tenuto in Lombardia e Veneto domenica 22 ottobre avrà delle conseguenze pratiche, delle conseguenze positive, sui lavoratori delle due regioni? Assolutamente no. Si tratta di una sceneggiata messa in atto dai presidenti leghisti delle due regioni che hanno voluto giocare ancora una volta la carta dell’autonomia regionale, tra l’altro con il pressoché totale assenso di tutti i rappresentanti locali dei partiti di centro e di sinistra. Un particolare divertente è che il sistema di voto messo a punto in Lombardia, che si basava su 24mila tablet, costato circa 50 milioni, è andato in tilt alle 19,00 di domenica. Ancora il martedì non c’erano che dati approssimativi a disposizione del pubblico. Il dio dell’efficienza lombarda è stato così dissacrato dai suoi stessi sacerdoti. L’affluenza è stata in ogni caso inferiore a quella del referendum costituzionale del dicembre 2016. In Lombardia ha votato all’incirca il 39% degli aventi diritto e in Veneto il 57,2. I Sì sono stati il 95% circa in Lombardia e il 98% in Veneto. La partecipazione al voto è stata nettamente maggiore nei piccoli centri rispetto alle grandi città, a Milano, la città più ricca e più produttiva d’Italia ha votato un elettore su quattro. Che cosa pensano di ottenere Maroni e Zaia? Un peso maggiore nei confronti prima di tutto del loro partito e di Salvini, che negli ultimi tempi ha cercato di “rinazionalizzare” la Lega. In un certo senso si è trattato di “primarie” all’interno del centro-destra, che dovranno essere determinanti, questo almeno si può pensare che sia il calcolo dei due governatori, nel ridefinirne i rapporti di forza interni.

Ma, a parte le chiacchiere autonomiste, un po’ di memoria ci aiuta nel ricordare che tutte le amministrazioni regionali venete e lombarde che si sono succedute negli ultimi anni, buona parte di centrodestra, sono state scompaginate da arresti e procedimenti giudiziari. Scrive Antonio Polito sul Corriere della seradel 23 ottobre: “Sempre e ovunque, sono i soldi il carburante del federalismo”. Con i referendum si sono chiesti in pratica più soldi per le regioni del nord, ma di quelli che sono fino ad oggi transitati nelle amministrazioni locali e regionali una grossa fetta è rimasta “appiccicata” nelle mani di assessori e presidenti di regione, mentre il sistema bancario veneto in particolare, fatto di banche “vicine al territorio”, è stato al centro dei più grandi scandali bancari degli ultimi anni, culminati con il fallimento di Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Sempre per non dimenticare, è doveroso richiamare l’inchiesta sul caso MOSE, l’infrastruttura mobile progettata per proteggere Venezia dalle maree. Non solo il governatore di Forza Italia e imprenditore Galan finì in galera, ma risultarono implicati, come ha scritto il giornalista Renzo Mazzaro nel suo “Veneto anno zero”, gli esponenti della “crema dell’organizzazione sociale”, quasi tutti veneti: amministratori pubblici, politici, parlamentari, ex ministri, imprenditori, tecnici, avvocati, magistrati, giudici e generali. Sempre con le parole di Mazzaro, il Consorzio Venezia Nuova distribuiva 100 milioni l’anno “in tangenti e finanziamenti illeciti e ingiustificati ed è andato avanti per dieci anni”.

A ben vedere, non c’è proprio nessuna ragione per i lavoratori veneti e lombardi, di appoggiare una classe dirigentelocale non meno parassitaria e ladra di quella romana.

R. C.