Il ritornello del momento è questo. Nel corso dei mesi estivi sempre più voci si sono unite al coro: “il peggio è passato”. Lo dice la Banca Europea, che prevede nei prossimi mesi “un periodo di stabilizzazione e ripresa molto graduale”. Lo dicono, naturalmente, Berlusconi e la sua cricca, lo dicono i rappresentanti degli industriali e dei banchieri.
Nessuno però può negare l’evidenza. L’occupazione diminuirà ulteriormente, anche in caso di ripresa. Il centro studi della Confindustria prevede che nel biennio 2009-2010 si saranno persi in tutto 700.000 posti di lavoro. Del resto, anche senza leggere i resoconti e le analisi dei vari centri di ricerca, ognuno può vedere con i suoi occhi la drammaticità della situazione. Non c’è città o anche cittadina di una certa grandezza dove non ci siano chiusure di fabbriche o di altre attività, dove non ci siano lavoratori licenziati o in cassa integrazione. “Il peggio è passato” ma per chi?
Si moltiplicano, tra i lavoratori, gli episodi di lotta. Picchetti, occupazioni e azioni più o meno “spettacolari”.
C’è la volontà di lottare, di non chinare la testa, in ognuno di questi episodi. Ma ci sono anche tutti i limiti di un aziendalismo e di un localismo coltivati per decenni dagli stessi gruppi dirigenti delle organizzazioni sindacali. Ognuno reagisce per la “propria” azienda che viene chiusa, ogni gruppo di delegati si affanna a dimostrare che la “sua” azienda è “competitiva”, che può stare sul mercato, ecc. . Spesso, la ricerca di appoggi nelle istituzioni locali finisce per alimentare illusioni campanilistiche o per servire semplicemente da supporto elettorale per questo o quel partito “radicato nel territorio”, come è di moda dire.
La consapevolezza di condividere un destino comune con altre decine e centinaia di migliaia di lavoratori si appanna. Soprattutto non diviene la base per un ulteriore sviluppo delle lotte.
Invece c’è bisogno proprio di questo: di una lotta generalizzata su obiettivi che interessano tutti. Inutile sperare negli effetti automatici di una ripresa economica che, ammesso che ci sia, brucerà tanti posti di lavoro quanti ne ha bruciati la crisi. I lavoratori potranno salvarsi dal continuo pericolo di cadere nella miseria solo se riusciranno a imporsi. Solo se sapranno far valere i propri interessi vitali sui privilegi di una minoranza sociale, abbelliti e mascherati dalle varie scuole di economisti.
L’insieme del mondo del lavoro, oggi, è interessato a pochi provvedimenti essenziali: in primo luogo il blocco dei licenziamenti e in secondo luogo la garanzia del salario, di un salario normale, anche nel caso di chiusura delle aziende o di forte riduzione dell’attività produttiva. Chi sostiene che questi provvedimenti non sono realistici, sostiene che è realistico lasciar morire di fame, o quasi,centinaia di migliaia di persone con le loro famiglie.
Le risorse ci sono. E non si tratta del solito giochino, che piace tanto agli esponenti del governo quanto a quelli dell’opposizione, di limare questa o quella voce del bilancio pubblico per ricavarne i soldi per gli “ammortizzatori sociali”. No, non è questa la strada. Almeno non è quella più importante; bisogna decidersi a guardare una buona volta nei portafogli degli altri, dopo che quelli dei lavoratori sono stati esaminati ai raggi x e mostrati al pubblico per decenni.
Si potrebbe cominciare dai bilanci delle grandi imprese, industrie, banche, assicurazioni, catene alberghiere, grande distribuzione e si potrebbe continuare esaminando i conti in banca, personali o con prestanome, degli industriali, degli speculatori di borsa, dei banchieri…
Solo un esame realistico dei redditi e delle ricchezze di tutti può consentire di stabilire la quota di ricchezza nazionale che può essere destinata a fronteggiare la disoccupazione. Se la disoccupazione è, come tutti riconoscono, un’ “emergenza”, per affrontarla occorrono misure d’emergenza.