È vero che la grande borghesia italiana, sostenendo i governi in carica, si è quasi immediatamente conformata alle direttive di Washington nella guerra russo-ucraina, ma questo è avvenuto, come si dice, con molti “mal di pancia”. Mal di pancia che durano tuttora.
Troncare, in tutto o in parte, i rapporti economici con la Russia ha significato, per diverse aziende, pagare un prezzo molto alto. Nel complesso, l’export italiano verso la Russia è sceso in valore del 35% dall’inizio del conflitto.
Poche settimane prima della guerra, la Camera di commercio italo-russa aveva organizzato un meeting in video conferenza con 16 tra le principali aziende italiane presenti in Russia. Putin, che presiedeva l’incontro, cercò di far leva sugli ottimi rapporti economici che si erano consolidati tra i due paesi.
In quell’occasione veniva ricordato che nei primi nove mesi del 2021, l’interscambio commerciale tra Italia e Russia era aumentato del 44% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Tra gli organizzatori del meeting, c’era l’amministratore delegato della Pirelli, Marco Tronchetti Provera. Certamente non un esponente di secondo piano della borghesia industriale italiana.
Putin ricordava, tra l’altro, che le compagnie energetiche italiane stavano ricevendo gas russo “a prezzi molto più bassi di quelli di mercato” grazie ai contratti a lunga scadenza con Gazprom.
Ma la politica estera italiana, come quella del resto dei paesi europei, si è rapidamente conformata agli indirizzi di Washington. Le più grandi associazioni imprenditoriali, come la Confindustria, hanno ufficialmente sposato la linea atlantista.
Ma la gran parte delle aziende che operavano in Russia prima della guerra ci è restata.
Vittorio Torrembini, presidente di un’associazione di imprenditori che opera in Russia da 35 anni, intervistato dal Sole 24 Ore dello scorso primo maggio, si esprimeva così: “Le spinte per uscire dalla Russia sono state forti...eppure le aziende che se ne sono andate sono poche, quelle che non avevano scelta, le imprese dell’oil and gas e dell’automotive, per esempio. Le altre, pur tra mille difficoltà, sono rimaste”.
Nello stesso articolo citato, veniva riportato che, secondo il database dell’Università di Yale, su 1028 grandi imprese che hanno lasciato la Russia all’inizio della guerra, quelle italiane sono una decina, cioè appena l’1,4% del totale.
Il persistere di questi interessi nel mondo imprenditoriale, che ultimamente si sente minacciato anche dai provvedimenti di nazionalizzazione di Putin contro aziende come la Ariston, si riflette nei partiti o al loro interno in modo più o meno scoperto. Il caso della Lega è quello più chiaro, ma certo il blocco di interessi di coloro che vorrebbero beneficiare a piene mani di un’aperta ripresa del commercio con la Russia è presente in tutti i partiti.
In ogni caso si tratta di difendere dei profitti. E questi si possono fare tanto con L’Ucraina che con la Russia. All’opinione pubblica si può continuare a dare in pasto la minestra riscaldata della lotta tra difensori della democrazia e sostenitori dell’autocrate del Cremlino.
R.C.