Il nostro internazionalismo

Per quanto essa sia molto ristretta, l’area politica che potremmo definire della “sinistra rivoluzionaria”, di fronte alle più recenti guerre, si è divisa in varie correnti o ha accentuato una divisione che era già presente.

Tali correnti rivendicano tutte l’internazionalismo, ma lo interpretano in maniera molto diversa l’una dall’altra. Questo fatto ha dato luogo perfino a scontri fisici tra militanti appartenenti a gruppi e organizzazioni diversi.

Vogliamo allora, precisare, ancora una volta, la nostra posizione. Una precisazione che si rende necessaria anche perché vediamo che si stanno organizzando varie iniziative, anche con gruppi di altri paesi, che dichiarano la propria intenzione di promuovere dei movimenti internazionali contro la guerra e in nome, appunto, dell’internazionalismo.

Secondo noi, l’internazionalismo si concretizza in primo luogo con la parola d’ordine che il socialista tedesco Karl Liebknecht lanciò i primi giorni della Prima guerra mondiale: “Il nemico principale si trova nel proprio paese”. Con questo intendeva, rivolgendosi ai lavoratori tedeschi, che la responsabilità delle guerre ricade sulle classi dirigenti, cioè sul capitalismo e sugli apparati statali di tutto il mondo. Per mettere in crisi il loro potere, per spezzare la loro macchina di propaganda, la classe operaia di ogni paese deve lottare in primo luogo contro la “propria” borghesia e la “propria” macchina statale. Ogni governo, ogni apparato statale di un paese in guerra o che sostiene le guerre altrui, utilizza argomenti basati sulla giustizia, sul diritto, sulla civiltà, ecc. Inoltre i mezzi di informazione vengono “arruolati” per influire sulle masse popolari, per sottolineare sempre le “crudeltà del nemico”, vere o esagerate o addirittura inventate che siano.

Nel caso russo-ucraino, come abbiamo scritto in molti articoli, volantini, newsletter e sostenuto in vari interventi pubblici, non si tratta di schierarsi per una delle due parti belligeranti. La Russia di Putin, ha agito come una potenza imperialista, per difendersi dal pericolo di un allargamento dell’alleanza atlantica alle porte di casa. Per perseguire questo scopo, ha instaurato un duro regime repressivo interno che ha colpito non solo gli intellettuali ma anche e soprattutto la classe operaia.

L’Ucraina di Zelensky non è che una pedina nel gioco delle potenze imperialiste europee e, almeno fino a ieri, degli Stati Uniti. Non c’è una parte per cui schierarsi, tutti e due i regimi sono nemici del proletariato. L’unica politica da appoggiare è quella di una lotta comune dei lavoratori russi e di quelli ucraini, cominciando da quelli mobilitati al fronte, contro i rispettivi governi.

Nel caso di Israele e di Gaza e, in genere, del popolo palestinese, la solidarietà con quel popolo non significa diventare i reggicoda e gli “altoparlanti” di Hamas. Il ruolo di Israele si conferma quello di una sentinella dell’ordine imperialista in Medio Oriente. Il carattere reazionario dei suoi governi è confermato dalla natura “confessionale” del suo ordinamento statale, che, tra l’altro, distribuisce i diritti dei cittadini a seconda della propria confessione religiosa.

Hamas non è da meno. Su questa organizzazione borghese ricade la responsabilità di aver costruito una “Pearl Harbor” che ha consentito a Netanyahu di scatenare un macello che ha fatto decine di migliaia di vittime.

L’oppressione del popolo palestinese è un fatto incontestabile. L’odio reciproco fra i due popoli coinvolti è un’eredità pesante e certamente non facile da superare. Ma gli internazionalisti italiani, proprio perché non subiscono direttamente, come i palestinesi, gli orrori di questa guerra, hanno il dovere di non perdere la bussola, di tenere la testa sul collo, non di correre dietro alle organizzazioni della borghesia palestinese, inseguendo la bandiera nazionale della Palestina e sventolandola nelle manifestazioni. Essi hanno il dovere di indicare nell’imperialismo il primo responsabile dello sterminio del popolo palestinese e in Hamas e nelle altre cricche della borghesia palestinese i loro nemici diretti. Hamas ha sottoposto alla sua dittatura il popolo di Gaza per 18 anni, utilizzando il suo piccolo apparato repressivo, fatto di polizia, milizie, prigioni. Nel 2019 migliaia di giovani hanno protestato e manifestato contro le imposte e la miseria, incontrando la feroce risposta della polizia di Hamas. Le condizioni tremende in cui stanno vivendo i palestinesi favoriscono oggettivamente Hamas, che controlla ancora quelle poche fonti di approvvigionamento che la guerra criminale condotta da Netanyahu non ha distrutto. Ma chi, come i militanti italiani, non vive lo stesso dramma e non subisce lo stesso ricatto, non ha nessuna giustificazione per seguire pedissequamente la politica di questa organizzazione reazionaria.

La via d’uscita non può basarsi che sull’obiettivo di una convivenza dei due popoli. Ma solo una forza che tagli ogni legame con gli apparati delle due borghesie e con il clero potrà imporre questo esito. L’obiettivo dei militanti comunisti non è “Due popoli due Stati”, ma un’unica federazione socialista dei popoli, nella quale tutte le religioni siano dichiarate estranee alla definizione delle regole della convivenza e all’educazione dei giovani. Nella quale sia bandita, sul piano dei diritti democratici, ogni differenza di etnia e di religione e nella quale gli stessi palestinesi abbiano diritto a definire le forme politiche con cui proteggere, se lo vorranno, la propria esistenza nazionale.

R. Corsini