La profondità della crisi economica mondiale risulta con evidenza dalle cifre di istituzioni come il Fondo monetario (FMI) o come l’Organizzazione per il commercio internazionale (WTO); il Pil globale, secondo il primo, si ridurrà del 4,4% nell’anno in corso, mentre il commercio internazionale subirà una contrazione del 10,4%. Per il WTO, la crisi del commercio mondiale sarebbe stata ancora più drammatica se la Cina e altri paesi asiatici non avessero incrementato, in anticipo rispetto alle precedenti previsioni, il loro export.
Un’analista dell’Istituto per la Politica Internazionale, Alessia Almighini, afferma che con il Covid “il commercio è stato colpito da shock simultanei di offerta, domanda e costi commerciali, e sta registrando la crisi più grave degli ultimi cinquant’anni”.
Certamente tutto vero. E, del resto, i lavoratori non hanno avuto bisogno di raffinate analisi per riconoscere i segni della crisi. Chiusure di fabbriche, licenziamenti, contratti a tempo determinato non rinnovati hanno contrassegnato per loro il 2020, come e più degli anni precedenti.
Nel buio tutti i gatti sono grigi
Tuttavia, proprio nel loro interesse, i lavoratori devono approfondire i vari aspetti della crisi, o almeno, quelli più importanti. Un proverbio inglese dice che nel buio tutti i gatti sono grigi; nel “buio” di un’interessata propaganda politica e giornalistica appare in effetti che tutti, dai disoccupati ai grandi imprenditori siano vittime di questa crisi.
Ma soppesando i dati e le informazioni reperibili dai vari organi di informazione economica, si capisce che la situazione non è così semplice e che il capitalismo sta facendo, in molti casi, di necessità virtù. Per fare un esempio elementare, lo stesso imprenditore che subisce il tracollo della “propria” produzione, può nello stesso tempo pareggiare i conti, o anche guadagnare qualcosa in più, investendo il proprio patrimonio, in tutto o in parte, nel circuito finanziario. In questo modo, come rappresentante dell’economia reale riceverà aiuti e sostegni economici nelle tante forme che il governo ha messo a punto e in quelle ancora da rendere operative, mentre come “risparmiatore” o come cliente di una delle varie società di gestione dei patrimoni otterrà delle rendite non trascurabili.
È uno dei tanti effetti di quella che è stata definita “finanziarizzazione” dell’economia. I capitali che non rendono se investiti nell’attività produttiva vengono dirottati verso quella speculativa. In fin dei conti, la ragion d’essere dell’impresa (e anche dell’imprenditore) è fare quattrini.
Per parlare in termini più concreti, servendoci delle stesse fonti giornalistiche più “autorevoli”, i maggiori quotidiani hanno reso noto che nel corso di quest’anno di pandemia i depositi bancari italiani sono cresciuti dell’8%. A settembre, secondo l’Associazione Bancaria Italiana, nei forzieri delle banche c’erano riserve prossime ai 1700 miliardi di euro. Siamo tutti dei gran risparmiatori? No, si tratta piuttosto della famosa media del pollo. Tra questi risparmiatori, infatti, ci sono quelli che hanno determinato il calo della domanda di una quantità di beni di largo consumo (abiti, scarpe, ecc.) o anche di servizi come le cure dentali o altre forme di cure mediche. In queste famiglie, l’incertezza del futuro si è tradotta nello stringere la cinghia al massimo.
Ma tra i risparmiatori non ci sono solo le famiglie: ci sono anche le imprese. Leggiamo sul Messaggero del 22 ottobre scorso che sul loro comportamento “ha influito in parte la dinamica dei prestiti garantiti iniziati da marzo”. Così, i depositi delle imprese sono cresciuti del 22% a luglio e del 18,7% ad agosto. In pratica, i soldi garantiti dallo Stato tramite il Fondo di garanzia di Mediocredito, per un totale di 93 miliardi, gli imprenditori li hanno messi in parte nel proprio conto corrente invece che investirli nelle proprie imprese. Nello stesso tempo, ci spiega l’articolista del Messaggero, la liquidità precedentemente ottenuta dalle banche con i canali tradizionali l’hanno “allocata in altre forme di risparmio”.
Così viene alimentata ulteriormente l’economia speculativa. Un professore di economia come Marcello Messori, descrive la situazione come una “crescente divaricazione fra quanti hanno continuato a percepire redditi medio-alti e a risparmiare e quanti avevano già redditi bassi e hanno subito ulteriori perdite di reddito: la ricchezza finanziaria totale, concentrata nelle mani dei primi, non ha risentito dell’impoverimento dei secondi”. Altro che uscire tutti insieme dalla crisi! L’autore dell’articolo dal quale abbiamo preso la citazione di Messori (Repubblica del 19 ottobre) si chiede sgomento come risolvere “la grande questione di come il sistema italiano non riesca a convogliare questa ricchezza nel finanziamento dell’economia reale”. I vari strumenti che intercettano il risparmio della borghesia italiana hanno puntato sui mercati azionari, “Wall Street in testa”.
Parassitismo economico italiano
Un altro indicatore attendibile del diverso modo in cui le varie classi sociali stanno vivendo questo periodo di crisi è dato dallo straordinario sviluppo, anche in Italia, del cosiddetto “private banking”. Si tratta di un settore di attività bancaria specializzato nella gestione di patrimoni privati. L’ordine di grandezza di questi parte da diverse centinaia di migliaia di euro. Prendiamo come fonte d’informazione un articolo apparso sul sito Wealth, il 6 novembre scorso. Risulta che usufruiscono del private banking più di un milione e 300mila clienti italiani, per un totale amministrato di 1047 miliardi a fine 2019. Alla fine dell’anno precedente, i miliardi erano 944 e il trend è proseguito nei mesi del Covid-19.
Ma anche questa non è che una parte della massa di ricchezza che fa dell’Italia il nono paese al mondo per patrimoni finanziari. Secondo il Boston Consulting Group, questi erano 4900 miliardi di dollari alla fine dello scorso anno. Rammentiamo che, pandemia o non pandemia, il 2019 è stato comunque un anno di crisi per l’economia italiana nel suo complesso. Nonostante questo, scrive il rapporto citato, dal punto di vista delle ricchezze private, si è trattato del migliore anno nell’ultimo decennio, con un incremento del 9,6% sul 2018.
Le previsioni sono di ulteriore crescita. I beneficiari di questa enorme mucchio di ricchezza sono prima di tutto i circa 400mila ricconi che detengono almeno un milione di dollari in patrimoni (esclusi quelli immobiliari). Tra questi, i super-ricchi sono 1700, ciascuno dei quali usufruisce mediamente di una ricchezza personale di 100 milioni di dollari.
Trattandosi di ricchezza non immobiliare, e tenendo conto dello sviluppo asfittico di gran parte dell’industria in Italia, è chiaro che questi capitali si generano e si accrescono nel circuito dell’economia finanziaria, ovvero nell’acquisto e nella vendita di titoli, che siano azioni, obbligazioni o le mille altre diavolerie che spesso si definiscono “prodotti finanziari”.
Lenin descrisse, più di un secolo fa, le caratteristiche del capitalismo moderno definendolo “imperialismo”. Una definizione che a qualcuno sembra anacronistica ma che invece coglie l’essenza dei rapporti economici e sociali anche nei nostri giorni. Lenin descrive tra l’altro l’imperialismo come capitalismo che ha sviluppato al massimo le tendenze parassitarie. Che cosa significa? Significa che il prevalere dell’esportazione di capitali sull’esportazione di merci, il prevalere della speculazione finanziaria sulla produzione materiale, generano una tipologia del tutto particolare di borghesia che si arricchisce col “taglio delle cedole”. Oggi, in realtà, siamo andati oltre: più che il taglio delle cedole, cioè l’appropriazione di parte degli utili delle imprese o di interessi sulle varie forme di debito, attraverso azioni e obbligazioni, il grosso dei guadagni viene dalla loro negoziazione sui mercati finanziari. Naturalmente, niente impedisce che l’imprenditore tradizionale, il “padrone” della fabbrica, l’armatore o il proprietario di imprese di costruzione sia “anche” uno speculatore finanziario.
Il capitalismo italiano era già imperialistico ai tempi in cui scriveva Lenin e oggi lo è infinitamente di più. Il suo grado di parassitismo non è secondo a nessuno.
I disastri della “finanziarizzazione”
Il circuito dell’investimento azionario ci porta alla dimensione mondiale del capitalismo e rende ridicole tutte le chiacchiere sul ruolo degli imprenditori come eroi del lavoro “nazionale”.
Avremo modo di tornare sugli sviluppi recenti dell’economia finanziaria internazionale e sui suoi movimenti interni. La grande discussione, ad esempio, che ultimamente ha preso più forza, sullo strapotere monopolistico dei “giganti della rete”, indicati tra gli specialisti con l’acronimo FAANG (Facebook, Apple, Amazon, Netflix, Google) è la manifestazione, in superficie, di uno scontro che sta svolgendosi ai livelli più alti del capitale finanziario mondiale su uno dei terreni di massima attrazione della speculazione finanziaria. Ma, al di là dei singoli casi, per quanto importanti, bisogna sottolineare, comunque, il ruolo distruttivo che la “finanziarizzazione” esercita sulla società. Infatti, se è vero che enormi flussi di capitale si stanno concentrando rapidamente su determinati settori produttivi, altrettanto rapidamente sono pronti a ritirarsene, attratti da più alti rendimenti in altri settori, lasciando dietro di loro disoccupazione, fallimenti e attività chiuse. Si preparano così nuove bolle speculative e nuove più catastrofiche crisi.
Per esempio, Russell Clark, manager dell’omonimo fondo d’investimenti, ha dichiarato sfrontatamente di puntare su quella che definisce “inflazione alimentare”. Basandosi, tra l’altro, su simulazioni come quella elaborata dal WWF, secondo la quale è prevedibile, in Asia, un aumento dei prezzi dei generi alimentari del 400% entro dieci anni, Clark spiega di aver dovuto “scommettere sull’inflazione alimentare in Asia, a partire dai prezzi della carne di maiale che in Cina già oggi viaggiano a livelli sei volte superiori che negli USA”. In pratica, i fondi come quelli di Clark o del più noto Warren Buffet, acquisiscono partecipazioni azionarie nei grandi conglomerati asiatici che commercializzano i beni alimentari, scommettendo sull’impennata dei loro prezzi e quindi su un buon ritorno dei loro investimenti in termini di dividendi e, ancora di più, di “valorizzazione” dei pacchetti azionari acquisiti.
Ma, avviato questo meccanismo, esso tende ad attrarre nuovi speculatori nell’acquisto di quei titoli e l’attesa di alti rendimenti diviene la classica predizione che si autorealizza, almeno fino allo scoppio della “bolla” così creata. Ma a quel momento, i Clark e gli Warren Buffet si saranno già ritirati verso altri campi speculativi.
Secondo Clark, il mercato finanziario globale sta conoscendo una polarizzazione tra monetarismo dell’Ovest, a bassissima inflazione, cioè con prezzi che crescono poco, e crescita dell’Est ad alta inflazione. Nessuno sa chi vincerà ma “una cosa appare certa, fin da subito e a bocce ferme: a pagare il prezzo di eventuali fiammate inflattive sui prezzi alimentari sarà la povera gente”. In questa candida ammissione si omette naturalmente di dire che i fondi azionari come quelli di Clark concorrono a spingere in alto i prezzi e quindi ad affamare la povera gente.
A questa azione devastante della finanza planetaria concorrono anche i “nostri” imprenditori, che i giornali e le televisioni ci presentano col volto simpatico del buon artigiano o dell’ingegnere “creativo”. Di questi tempi passano anche per infaticabili eroi della produzione, che non perdono occasione per “indignarsi” di fronte alle “irragionevoli richieste” dei lavoratori, non abbastanza coscienti, secondo loro, della gravità di una crisi “che riguarda tutti noi”.
R. Corsini