Il biennio di piombino: 1910-1911

Sono passati cento anni, molte cose sono cambiate, ma l’esperienza delle lotte fa parte della nostra memoria


Cento anni fa si concludeva, con una dura sconfitta, l’impetuoso ciclo di lotte operaie che coinvolse gli stabilimenti produttivi di Piombino e gli altiforni e le miniere dell’isola d’Elba.

Nel biennio 1910-1911 la classe operaia piombinese aveva già alle spalle una tradizione di lotte, che datavano praticamente dai primi insediamenti industriali del 1860. Ma è attraverso questo biennio cruciale che gli operai piombinesi acquisteranno un pesante bagaglio di esperienze, e la memoria storica per affrontare le sconfitte e riprendere in mano il futuro.

Piombino era già allora una città fabbrica, che attraeva immigrazione da tutta Italia, dove i lavoratori e le loro famiglie vivevano in condizioni di miseria e di indigenza diffuse, sottoposti a livelli di sfruttamento micidiali. Oggi che, di fronte al progressivo arretramento delle condizioni di lavoro, né industriali né politici né pennivendoli vari si vergognano di caldeggiare il presunto “ammodernamento del sistema produttivo”, forse farebbero gola a più d’uno le modalità con le quali all’epoca si realizzavano le fortune del capitalismo nostrano.

Il terreno di scontro sul quale si giocarono gli scioperi, iniziati nel luglio 1910, vedeva una serie di rivendicazioni operaie, dalle 10 ore della giornata lavorativa, con il pagamento dello straordinario per l’orario eccedente, all’abolizione del lavoro continuo per 24 ore, a un vero e proprio contratto di lavoro, nel quale venisse stabilito che “in caso di sospensione d’attività dei forni 1 e 2 (o per serrata non provocata da noi, o per pulizia o altro) gli operai di tutte le categorie del reparto altiforni e forni a coke non si ritengano dalla direzione licenziati” ma semplicemente sospesi, per ritornare al lavoro con la fine della fermata alle stesse condizioni di prima.

L’unica concessione che la direzione si dichiarò disposta a discutere era quella relativa alle 24 ore consecutive, proponendo 18 ore senza modifica dei turni: la conseguenza era che gli operai non avrebbero più goduto nemmeno di un giorno intero di riposo. La risposta immediata fu lo sciopero, seguito dalla replica padronale, che dichiarava la serrata dello stabilimento. Per tutto il mese di agosto i lavoratori non dettero segni di cedimento, mentre la direzione preparava un nuovo regolamento interno, che oltre a norme più restrittive, prevedeva dopo la vertenza visite mediche per selezionare le riassunzioni, e l’esclusione di tutti gli operai oltre i 40 anni di età. La proprietà aveva buon gioco nel sostenere lo scontro, perché una delle ricorrenti crisi siderurgiche dava la possibilità di resistere a lungo, date le enormi giacenze di magazzino. Era in corso inoltre una trattativa con le banche, per chiarire la propria posizione debitoria e ottenere un prestito. Ai primi di agosto 300 soldati di truppa furono mobilitati a Piombino, ma la fermezza degli operai, che riuscirono a non indietreggiare per quasi due mesi, ebbe un ruolo determinante. La direzione fu costretta ad accettare tutte le richieste e a rinunciare – per il momento – all’adozione del regolamento.

La vittoria operaia non aveva spaventato solo l’azienda. Anche i riformisti del PSI si lanciarono in una campagna di attacchi alla Camera del Lavoro, accusandola di abusare dell’arma dello sciopero, quando molte vertenze avrebbero potuto trovare una soluzione “dopo trattative amichevoli, richieste con forma corretta e educata”. I fatti dell’anno successivo si incaricheranno di smentirli duramente. Il 6 luglio 1911 scendevano in sciopero gli operai degli altiforni di Portoferraio, e subito dopo anche i minatori dell’Elba. La serie di vertenze- legate sostanzialmente a indennità non corrisposte - che si trascinavano da inizio anno a Piombino, e che non erano ancora sfociate in uno sciopero, all’improvviso cambiano di segno: lo sciopero è immediato, e immediata la serrata dello stabilimento, con l’intervento delle forze di polizia per sgomberare i reparti ancora funzionanti. Il Consiglio generale della Camera del Lavoro, riunito in assemblea il 9 luglio, dichiara di accettare la sfida, e che i lavoratori non riprenderanno il lavoro finchè non saranno risolte tutte le vertenze, degli operai di Piombino e di Portoferraio, dei minatori elbani e dei lavoratori del mare. Ormai la posta in gioco è chiara: per i padroni si tratta di ristabilire ordine e disciplina, per gli operai non c’è alternativa alla lotta. Sarà sicuramente lo scontro di classe più imponente in quell’anno in Italia; una lotta durissima, segnata da oltre quattro mesi di sciopero ininterrotto, dalla militarizzazione degli stabilimenti, da continui arresti di scioperanti e di sindacalisti. Ma anche da episodi importanti di solidarietà operaia: sottoscrizioni, collette, invio di viveri da tutto il Paese, e soprattutto l’affidamento dei figli “dei serrati” ad altre famiglie operaie sparse per tutta Italia, dalla Toscana, al Lazio, all’Emilia Romagna, al Veneto, alla Liguria, alla Lombardia.

La sconfitta, i successivi licenziamenti, e la repressione degli organismi e della stampa operaia non hanno fermato la storia. Altre lotte sono seguite, altre sconfitte, ma anche altre vittorie. Tuttavia, a chiunque tuttora pensi che bastino “trattative amichevoli, richieste con forma corretta e educata”, tutta la storia del movimento operaio e delle sue lotte ha già risposto a sufficienza.

Aemme