Crisi o non crisi, il risultato è lo stesso. Un pretesto per approfittare dei salari, allo scopo di ingrassare in ogni caso gli utili, si trova sempre. Perché pagare una qualsiasi somma a un dipendente, se si può comunque provare a pagarlo molto meno?
Ikea, il colosso svedese dei mobili e delle suppellettili a buon mercato, ha 315 magazzini sparsi in tutto il mondo, 21 dei quali in Italia con circa 6.000 dipendenti, e ha registrato nell’esercizio 2014-2015, che si è concluso ad agosto, un aumento del giro di affari dell’11%, (Repubblica, 10.9.15) con una crescita record in Germania e un ottimo andamento in Nord America. Al momento non sono ancora noti i profitti sullo stesso periodo, ma negli ultimi dodici anni di affari i ricavi non hanno conosciuto battute d’arresto, e il profitto netto riferito al 2013-2014, consultabile sul sito ufficiale del gruppo, ammonta alla bellezza di 3,3 miliardi. Prossimo obiettivo dichiarato: 50 miliardi di fatturato entro il 2020.
Uno stato di salute innegabile, che ha consentito in Italia l’apertura di tre nuovi punti vendita tra il 2011 e il 2014, a Catania, Pescara e Pisa. Tre megastore in quattro anni non sono uno scherzo nemmeno per la multinazionale del mobile più famosa del mondo; hanno ovviamente un costo, che l’impresa sarebbe perfettamente in grado di sostenere. Ikea infatti non è in crisi, e non è in crisi nemmeno in Italia, perché il fatturato è sostanzialmente stabile, con un segno meno solo per lo 0,2%, ampiamente compensato dal maggior fatturato altrove. D’altronde, soltanto a ottobre 2014 i vertici italiani del gruppo avevano annunciato il ritorno alla crescita, annunciando perfino l’intenzione di procedere con nuove assunzioni.
Ma ovviamente, smettendo i panni dell’impresa paternalista, conciliante e democratica, la multinazionale non si è fatta sfuggire l’occasione di scaricare sui lavoratori i maggiori oneri dovuti agli investimenti nei nuovi punti vendita, rompendo unilateralmente il contratto integrativo aziendale. L’azienda ha messo in discussione le colonne portanti della contrattazione integrativa: la maggiorazione per il lavoro festivo, il premio aziendale, e il cosiddetto premio di partecipazione, per un taglio agli stipendi di almeno il 20%. Se si considera che gli stipendi Ikea per i dipendenti a tempo pieno variano tra i 1.200 e i 1.300 euro mensili, e che circa il 70% del personale lavora part-time, segnatamente nei giorni festivi, si ha un’idea del risultato devastante nelle tasche dei lavoratori.
La reazione infatti non si è fatta attendere, con una serie di scioperi che hanno interessato tutti i magazzini in Italia, scioperi ripetuti in varie forme e con buoni risultati, nonostante l’azienda avesse risposto sostituendo gli impiegati alle casse con lavoratori interinali e persino con quadri e dirigenti. Davanti ai negozi i lavoratori hanno appeso striscioni e hanno costituito dei picchetti, chiedendo solidarietà ai clienti e invitandoli al boicottaggio degli acquisti. In qualche caso hanno improvvisato cortei interni ai saloni di esposizione, e sono riusciti a provocare la chiusura del magazzino di Afragola, nel napoletano.
Dopo un simile esordio, inedito nei rapporti tra il gigante svedese e le sue maestranze, e abbastanza inedito anche nel panorama generale delle lotte operaie degli ultimi anni, sia per l’adesione del personale, sia per la generalizzazione in tutti i magazzini del gruppo, le trattative con i sindacati sono ripartite a metà settembre. Ci sono i presupposti per ottenere buoni risultati, se i lavoratori riusciranno a mantenere il controllo delle proprie lotte.
Aemme