La polemica tra il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker e Renzi, ha offerto a quest’ultimo la possibilità di utilizzare uno dei più classici trucchi dei governanti che sentono la sedia tremare sotto i loro posteriori: l’orgoglio nazionale. Secondo il politologo Ilvo Diamanti, si tratta di “marketing politico”. Il sempre maggior discredito che hanno le istituzioni europee agli occhi dell’elettorato rischia di rafforzare i partiti nei quali la componente euroscettica è maggioritaria. In vista delle prossime elezioni amministrative, si tratta allora di recuperare quanto più possibile di questo elettorato facendo la parte di quello che “non si fa mettere i piedi in testa da nessuno”.
Sventolare il tricolore, però, non cancella la realtà. In testa alle preoccupazioni della maggioranza della popolazione rimane il lavoro. La disoccupazione resta a livelli drammatici, mentre i segni di una ripresa economica, anche misurandoli con gli indicatori ufficiali, non si vedono. Nel frattempo, sul piano dell’economia internazionale, si addensano altre nubi, a cominciare dal crollo delle borse di inizio anno.
Il miracolo riformista annunciato a suo tempo da Renzi non si è compiuto e non può compiersi. L’Italia non ha cambiato verso. Tutto si riduce a grandi giochi di prestigio verbali, a trovate ad effetto, annunciate sull’onda dell’emotività, per prendere l’opinione pubblica, come si dice, per il verso del pelo. Il caso più recente è quello dei provvedimenti annunciati contro i dipendenti pubblici “fannulloni”. “Saranno licenziabili in 48 ore” annunciano Renzi e i suoi. Fingono di ignorare che le norme disciplinari del Pubblico impiego prevedono già oggi il licenziamento se un dipendente timbra il cartellino e poi se ne va per i fatti suoi o se fa timbrare ad un collega. Non solo, la materia disciplinare è stata quasi del tutto sottratta alla contrattazione collettiva dalla famigerata “riforma” Brunetta, che ora infatti rivendica di aver già fatto tutto lui.
Mussolini, che in modo più o meno inconfessato, è rimasto il punto di riferimento di molti politici italiani, diceva che in politica “bastano tre centesimi di merce e novantasette di tamburo”. Renzi sembra avere perfettamente assimilato questa lezione. Nei tre centesimi di merce ci sono i provvedimenti anti-operai, come il jobs act, che stanno portando la condizione di lavoratore sempre più vicino a quelle di un paria moderno. Ci sono anche i vari regali che il governo ha fatto alla grande borghesia, dagli sgravi fiscali ai salvataggi delle banche a danno dei loro piccoli e ingannati risparmiatori. Il resto è aria fritta.
L’ascesa di Renzi ha avuto caratteristiche proprie, ma sostanzialmente ha ripercorso la via già battuta da altri. La promessa di grandi riforme, l’ottimismo sfoggiato in tutti i momenti e in tutte le salse, l’idea di un governo capace di rimodellare in poco tempo un paese, eliminando tutto il vecchio, tutte le inefficienze, tutti gli sprechi. L’ostentazione di una competenza economica – in realtà inesistente – che afferra il cuore dei problemi ed è in grado di rimettere in carreggiata l’industria e di creare milioni di posti di lavoro. Come per Berlusconi, anche per Renzi la politica è soprattutto novantasette centesimi di tamburo.
La Confindustria ha appoggiato il governo fino ad oggi. Si può capire: le poche cose concrete fatte da Renzi sono state a beneficio dei suoi associati. Dietro il governo Renzi c’è la vera detentrice del potere: la grande borghesia. Di questa classe, la coalizione di governo riproduce tanto i sogni di grandi riforme quanto la realtà fatta di grettezza, di spilorceria e di furbizie da mariuoli. La vicenda della vicepresidente di Confindustria, Diana Bracco, indagata per una frode fiscale da un milione di euro fotografa il volto di un’intera classe sociale.
Oggi con il centrosinistra, domani con la destra semifascista di Salvini, il programma della grande borghesia contiene un solo punto fondamentale: i profitti. L’abilità richiesta ai leader di partito è di camuffarlo con slogan e parole d’ordine che incontrino il favore del pubblico nel momento dato. Di volta in volta si può essere riformisti, conservatori, xenofobi, multiculturali o nazionalisti.
I loro programmi non possono essere, evidentemente, quelli della classe lavoratrice, che oggi necessita soprattutto di un serio miglioramento economico e normativoe dell’adozione di efficaci protezioni contro la disoccupazione. Sono questi i primi punti di un programma operaio. Per conquistarlo, però, non servono le schede elettorali ma l’organizzazione e la lotta.