L'insieme dei provvedimenti del governo Renzi, dalla legge di Stabilità alla riforma Poletti sui contratti a termine fino al Jobs Act, aggiunti a tanti altri dei governi precedenti, spianano la strada al pieno arbitrio del padronato sulle condizioni di lavoro in Italia.
I disoccupati sono 3 milioni e 400 mila, il 9% in più dello scorso anno, un numero che parla chiaro e che ci dice quanto fossero false tutte le promesse che i governi Monti e Letta avevano fatto per farci ingoiare la devastazione del sistema pensionistico e la riforma Fornero del mercato del lavoro. Ma le cose rimarranno così anche nel 2015. Il tasso di disoccupazione non scenderà. Lo dicono tutti gli analisti, dalla Banca d'Italia, all'Istat ai centri di analisi economica delle grandi banche che tengono conto delle novità introdotte dal governo Renzi.
Ma le cifre sono delle semplici fotografie. Bisogna vedere tutto il film per avere un'idea di quello che sta succedendo. Una sola frase di un articolo del professor Luciano Gallino pubblicato da Repubblica lo scorso 18 novembre apre uno squarcio sull'immediato futuro: “Il numero di lavoratori poveri aumenterà in Italia in notevole misura”. Perché alla riduzione delle difese contro i licenziamenti arbitrari corrisponderà un ulteriore indebolimento del potere negoziale dei lavoratori, sia collettivamente, sia, ancora di più, individualmente.
Come se non bastasse la paura di finire senza lavoro, paura che già oggi costringe, in molte situazioni, ad accettare salari di fame, ore di lavoro non pagate, precarietà, condizioni di rischio personale altrimenti inaccettabili!
“Bisogna accontentarsi, di questi tempi è già tanto se si ha un lavoro...”. Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste parole? Sono le dimensioni raggiunte dalla disoccupazione che spingono a rinunciare a sempre più diritti. E questo avviene da tempo, giorno per giorno, nella realtà della vita quotidiana di decine di milioni di persone.
Una situazione del genere, prodotta “naturalmente” dall'azione sfrenata delle forze di mercato, non avrebbe certo bisogno di essere aggravata e amplificata da “riforme” come quelle di Renzi o di Poletti. Ci sarebbe bisogno, al contrario, di costruire delle solide difese per occupati e disoccupati, per impedire che le imprese usino la crisi e la miseria come mezzi per mantenere i propri profitti a discapito dei lavoratori. Ma certo queste difese non può realizzarle un governo che “realizza i sogni” della Confindustria, secondo la commovente espressione di Giorgio Squinzi.
Dopo anni di paralisi, alcuni dei grandi apparati sindacali hanno “riscoperto” la mobilitazione e l'appello allo sciopero generale. Si può essere certi che la preoccupazione principale dei vertici di Cgil e Uil, con tutti i distinguo e le sfumature che li dividono, non è la tutela dei lavoratori ma quella di loro stessi e del loro ruolo sociale.
In ogni caso, milioni di lavoratori, di giovani, di senza-lavoro, sono in qualche modo toccati e scossi da questo movimento.
Noi pensiamo che tanto la manifestazione romana del 25 ottobre, quanto lo sciopero generale del 12 dicembre, dovrebbero essere considerati le prime tappe di una mobilitazione che duri nel tempo, fino al raggiungimento di alcuni obiettivi essenziali. Il primo è l'abrogazione del Jobs Act, naturalmente.
Ma, oltre a questo, tre milioni e 400 mila disoccupati non possono sospendere le proprie funzioni vitali in attesa della ripresa economica!
Bisogna rivendicare un salario garantito ai disoccupati, che non sia la miseria dell'attuale indennità di disoccupazione e che non abbia altri limiti di tempo che quelli necessari al disoccupato per trovarsi un altro impiego. Ma bisogna anche imporre un blocco dei licenziamenti e un ripristino del turn-over cominciando dalle grandi imprese, perché fabbricare disoccupazione cessi di essere la loro attività principale.