L’area che copre il Piemonte Sud-orientale e la provincia di Pavia, collocata nel cuore del primo gruppo di Regioni considerate “rosse” dal punto di vista dell’emergenza pandemica, costituisce un valido punto di osservazione dei risvolti, degli effetti, delle implicazioni economico-sociali e del significato politico delle misure restrittive e degli interventi adottati dalle autorità. Uno dei primi dati che balza agli occhi è come tanto i poteri centrali quanto quelli locali, mentre hanno affrontato la seconda ondata di epidemia mostrando gravi inadeguatezze e ritardi dal punto di vista del sistema sanitario, abbiano invece tratto qualche basilare insegnamento dalla prima fase di lockdown. Se in prima battuta la questione delle restrizioni sui luoghi di lavoro e nell’apparato produttivo si era risolta in una serie di provvedimenti palesemente lacunosi e in stridente contrasto con l’enfasi emergenziale del “tutti a casa”, senza che sia mancato un evidente occhio di riguardo per gli interessi della borghesia industriale, nella seconda ondata il problema semplicemente non si è posto. La questione della chiusura di fabbriche, magazzini della logistica etc. non è nemmeno entrata nel dibattito. Evidentemente o l’Esecutivo e le autorità regionali credono ciecamente ormai alla tesi confindustriale secondo cui le fabbriche non sono luoghi di contagio e il virus si terrebbe alla larga da stabilimenti e cantieri oppure queste istituzioni hanno preferito assecondare la volontà di quelli che sono i loro autentici grandi elettori. Nella società capitalistica la soluzione del dilemma è scontata. Ma anche le organizzazioni padronali hanno saputo fare tesoro dell’esperienza. Spicca il caso di Confagricoltura. Già a seguito dei provvedimenti restrittivi di fine ottobre riguardanti il settore della ristorazione, il presidente di Confagricoltura Vercelli e Biella è partito alla carica. Per compensare le mancate vendite da parte degli imprenditori dell’agroalimentare alla filiera della ristorazione, il dirigente dell’associazione degli agricoltori ha stilato un elenco di misure che l’edizione online del giornale vercellese “La Sesia” ha riportato minuziosamente. Tra richieste di esoneri contributivi e di ampliamento di fondi già previsti, brilla la perentoria pretesa di contributi a fondo perduto «svincolati dal requisito del calo di fatturato». Insomma, è ripartito (ammesso che si sia mai interrotto) l’assalto padronale alla diligenza delle casse pubbliche, storicamente rimpinguate dai lavoratori salariati. La borghesia agricola di questa zona non tradisce certo la propria storia di rapacità. Ma in queste settimane di lockdown regionale è in generale la stampa locale a rigurgitare di testimonianze della sofferenza della piccola borghesia, commerciale e non solo. Agli articoli dedicati alle criticità di queste mezze classi, sopravvissute alla dinamica di concentrazione capitalistica grazie alle profonde ramificazioni della loro influenza politica e ad un fisco a lungo clamorosamente sbilanciato sulle spalle del lavoro dipendente, si accompagnano i solerti impegni delle autorità e degli amministratori pubblici a intervenire sempre più in loro soccorso. La condizione dei salariati rimane in genere sullo sfondo e le loro difficoltà tendono regolarmente a fare capolino solo indirettamente, come destinatari in seconda battuta della benevolenza imprenditoriale opportunamente foraggiata, e articolata nelle varie formulazioni di un “welfare aziendale” dall’inquietante profilo.
Alla luce di questa narrazione mediatica e del taglio prevalente degli interventi politici verrebbe quasi da concludere che in questa emergenza sussistono dei “privilegiati”: i lavoratori salariati. Eppure, se si guarda nelle pieghe della cronaca, se non si è rinunciato ad ascoltare la voce degli operai e del proletariato in genere, emerge brutalmente una condizione di classe che continua ad essere sottoposta alla pressione di un padronato che, virus o meno, punta sulla contrazione salariale e sulla negazione delle tutele lavorative per macinare sempre più profitti. Dosi da cavallo di retorica sull’unione sacra in tempi di epidemia e di omaggi ipocriti a tutti gli operatori che lavorano per la collettività in tempi di emergenza non hanno impedito agli addetti alle pulizie dell’ospedale di Alessandria di denunciare, come riportato dall’edizione locale de “La Stampa”, le gravi condizioni di insicurezza e di carenza di dispositivi di protezione con cui devono fare i conti, anche se esposti ai rischi delle aree riservate ai pazienti Covid. Le lamentele borghesi per i generici tempi grami non hanno impedito, come ha documentato ”La Provincia Pavese”, alla cooperativa che impiega i facchini del magazzino Carrefour di Chignolo Po (Pavia) di imporre l’ennesimo giro di vite sulle condizioni di lavoro e di sicurezza del suo personale. Fino alla pretesa di applicare un prelievo sulle buste paga per ripianare le perdite in bilancio.
Non c’è che dire, tutte le favolacce, sparse a piene mani soprattutto durante la prima ondata, sul mondo che sarebbe sbocciato a nuovi rapporti sociali, dopo la lezione umanista dell’epidemia, hanno prevedibilmente lasciato il campo alla realtà capitalistica, sempre più spietata. Se qualcosa effettivamente di nuovo la “lezione” dell’epidemia ha apportato è un ulteriore inasprimento delle contraddizioni e dei rapporti di classe capitalistici. Insieme a nuovi dati, esperienze e prove storiche a sostegno della nostra convinzione nella validità della critica rivoluzionaria marxista al capitalismo, ad ulteriore alimento della nostra consapevolezza della necessità di superare questo sistema sociale perché il genere umano abbia un futuro degno delle sue potenzialità.
Corrispondenza Pavia