La catastrofe della centrale di Fukushima in Giappone ha rafforzato nell’opinione pubblica le preoccupazioni per i pericoli insiti nell’utilizzo dell’energia nucleare. In particolare quei pericoli collegati all’eventualità di un incidente e all’impreparazione di chi dovrebbe fronteggiarli.
Dato che l’industria nucleare esiste da un po’ più di mezzo secolo, si conoscono un certo numero di rischi legati al suo funzionamento, così come i mezzi per farvi fronte. Da questi mezzi è escluso lo smaltimento delle scorie, problema ancora non risolto. Sul piano teorico, dal punto di vista delle conoscenze già acquisite e delle norme costruttive, di manutenzione e di sicurezza che ne dovrebbero scaturire, incidenti come quello giapponese, per quanto verificatosi in seguito a circostanze eccezionali, non avrebbero dovuto verificarsi. Si può argomentare che ogni attività umana comporta dei rischi, è vero. Ma quando si "maneggia" qualcosa come l’energia nucleare bisogna obbligatoriamente attrezzarsi nella previsione di eventi straordinari, il che comprende anche la pianificazione preventiva di tutte quelle misure che consentano comunque di limitare i danni alla popolazione nel breve e nel lungo periodo.
Ma a parte quello che dovrebbe succedere in teoria, in realtà si è ben lontani dal rispettare tutte le precauzioni necessarie. Le dimensioni della tragedia del terremoto, prima, del maremoto, poi, con migliaia e migliaia di morti, hanno accentuato la drammaticità delle vicende legate alla centrale di Fukushima. La stampa internazionale, per una volta, ha contribuito a far emergere i lati più inconfessabili del capitalismo giapponese. Così è venuto fuori che per fare risparmi di qua e di là, i dirigenti della Tepco, la società proprietaria della centrale, non hanno tenuto conto, in un recente passato, degli avvertimenti sui rischi sismici per una centrale progettata dall’americana General Electric, "senza tener conto delle caratteristiche geologiche del Giappone e delle minacce che ne risultano". Anche sui tubi di raffreddamento si è risparmiato, preferendo la loro installazione a terra invece del più costoso interramento. Al momento dell’onda dello tsunami una parte dei tubi è stata spazzata via. I sistemi di pompaggio, poi, erano concepiti per spegnere incendi di minore intensità e non per portare l’acqua necessaria al raffreddamento dei reattori. Più dell’energia nucleare in sé, è l’irresponsabilità di quelli che la gestiscono, che si tratti di imprese private, nazionalizzate o statali come a Chernobyl, che porta alla catastrofe.
Non è solo il caso dell’energia nucleare. Il carbone ha ucciso e continua a uccidere, in Cina, nel Sudafrica ma anche nei paesi ricchi come gli Stati Uniti o il Canada; decine di migliaia di minatori sono morti nelle catastrofi minerarie oppure di morte lenta perché colpiti da silicosi. Anche l’estrazione del petrolio comporta numerosi incidenti o casi di inquinamento del mare, come recentemente il caso della piattaforma petrolifera della Bp nel golfo del Messico. Queste energie di origine fossile hanno anche conseguenze a lungo termine per il futuro del pianeta, essendo all’origine del riscaldamento globale. In quanto all’energia idraulica che ci viene presentata come "pulita", comporta anch’essa dei rischi, come nei casi del Vajont in Italia o di Malpasset in Francia negli anni ’50, con la devastazione di valli intere e la morte di centinaia di persone.
Una catastrofe in una miniera o in un pozzo petrolifero può avere conseguenze su larga scala. Ma questo è probabilmente ancora più vero con l’energia nucleare. Non solo i lavoratori e la popolazione locale ne possono essere le vittime, ma una zona importante del pianeta può essere contaminata, come ha dimostrato l’esplosione della centrale di Chernobyl.
Tutto questo dovrebbe spingere i responsabili, manager o alti funzionari di stato che siano, a raddoppiare la prudenza. Ma in questo sistema il potere di decisione, in ultima istanza, è nelle mani di chi ha i capitali. E i capitalisti conoscono soltanto la legge del profitto.
Più ancora della scelta tra le varie forme di approvvigionamento energetico, all’umanità sta di fronte la scelta se continuare o meno a lasciare che una minoranza di ricconi parassiti, che considerano il pianeta come una loro proprietà, determini il suo destino e la sua stessa possibilità di sopravvivere.
RM