A seguito delle misure adottate per combattere la pandemia, sarebbero trecentomila, secondo l'assicuratore britannico Lloyds, i marittimi delle navi mercantili in attesa di soccorso nel mondo.
La chiusura dei porti e l'interruzione dei viaggi aerei ha fatto sì che centinaia di migliaia di lavoratori del mare abbiano dovuto aspettare, sia a bordo che in un porto, che gli armatori si degnassero di organizzare il loro rimpatrio. Infatti, o il loro imbarco era terminato e dovevano essere sostituiti, oppure il blocco della nave in porto rendeva inutile la loro presenza.
D'altra parte, centinaia di migliaia di marinai hanno continuato a lavorare senza essere sostituiti. Gli equipaggi sono internazionali, tre quarti dei marinai provengono da vari paesi asiatici, e molti degli ufficiali sono dell'Europa dell'Est. Si imbarcano da qualche parte lungo la rotta della loro nave. Ma con l'epidemia e l'assenza di trasporti aerei, il cambio non è potuto arrivare e quindi è restato lo stesso equipaggio.
Ora, con il declino dell'epidemia e la volontà dei governi di rimettere in moto l'economia, il traffico marittimo sta riprendendo a crescere, ma non ancora quello aereo, e non c'è ancora l’avvicendamento degli equipaggi. Ci sono quindi equipaggi in mare che lavorano da mesi, a volte da più di un anno, a turni sette giorni su sette, e di cui si può immaginare lo stato di esaurimento nervoso. È così sulle navi più grandi e più moderne e anche su quelle più fragili, petroliere, gasiere, “chimichiere”, ecc. Sebbene gli Stati abbiano firmato un accordo che prevede l'obbligo di rimpatrio degli equipaggi alla fine del loro contratto, esso non viene applicato, o non si applica completamente. Spesso le compagnie europee non hanno fatto niente per rimpatriare i loro marinai stranieri, anche se vi erano obbligati per legge.
Ma, dopo tutto, approfittare dell'epidemia per peggiorare le condizioni di lavoro e mantenere i loro dipendenti al lavoro più a lungo è una politica generale dei padroni. In mare, è solo più agghiacciante.
P. G.