La crisi economica è considerata ormai da tutti la cosa più importante. Lo si capisce ascoltando i notiziari o leggendo i giornali. Milioni di famiglie lo capiscono direttamente dai conti che devono fare con la sopravvivenza.
Non può continuare così. Lo si dice e lo si sente dire nei mercati, nei caffé, dal parrucchiere. Ce lo diciamo nei luoghi di lavoro. C'è insofferenza, c'è rabbia. Ma se dal mugugno sterile si vuole passare all'azione consapevole, bisogna capire.
Siamo bombardati da notizie che riguardano l'economia. Bisogna metterne insieme più d'una e cercare di trarne qualche conclusione. L'industria manifatturiera ha subito un tracollo, lo dice la Confindustria. Ma l'industria dipende in grandissima parte dalle banche, e queste – lo ha ribadito il governatore della Banca d'Italia - hanno chiuso i rubinetti del credito. I prodotti dell'industria italiana si vendono di meno perché risentono della scarsa innovazione. La scarsa innovazione è in gran parte conseguenza delle piccolissime dimensioni medie delle aziende italiane. Su tutto questo si continuano a fare discorsi, tenere seminari, animare dibattiti. Ma anche se prendiamo per buoni tutti questi discorsi, la domanda è: che cosa impedisce alle banche di prestare soldi alle imprese?. Oppure: che cosa impedisce ai piccoli imprenditori di unire le proprie forze e trasformare, ad esempio, 10 fabbriche con trenta dipendenti l'una in una fabbrica di trecento? E, in questo modo, guadagnando dalle economie di scala, investire nella ricerca e nello sviluppo dei prodotti e delle tecniche produttive?
Lo impedisce il fatto che nessun capitalista, grande o piccolo ha fiducia nel capitalismo come sistema. Non tanta fiducia, almeno, da sacrificare l'uovo oggi per la gallina domani.
Certo, fondere dieci piccole aziende per farne una media sarebbe una grande prova di attaccamento al sistema industriale nazionale, ma porterebbe di sicuro al ridimensionamento del ruolo sociale e del tenore di vita degli ex-padroni, divenuti magari “soltanto” degli azionisti.
Certo, concedere credito alle imprese che fanno buoni prodotti o che hanno buone idee da sviluppare sarebbe una dimostrazione di fiducia nei confronti del capitalismo. Ma l'impresa debitrice potrebbe anche andare male e i soldi non tornerebbero più indietro.
Banchieri e industriali aborrono il rischio. È bello e gratificante sentirsi parte di coloro che vogliono fare uscire l'Italia dalle secche della crisi, ma, insomma, ai sacrifici ci pensino gli altri. Sono o dicono di essere i campioni del capitalismo ma non hanno intenzione di rischiare niente di proprio per difendere questo stesso capitalismo.
E infatti tutte le analisi e le ricette per uscire dalla crisi finiscono invariabilmente per scaricarsi sui lavoratori e sui ceti popolari. Loro e solo loro devono, in ultima analisi…salvare il capitalismo!
I governi, da Berlusconi a Monti a Letta, non hanno fatto altro che farsi interpreti e difensori del conservatorismo reazionario dei banchieri e degli industriali.
Salvaguardare la grande borghesia è diventato il tratto comune della maggior parte dei discorsi sull’economia che si sentono in TV o si leggono sui giornale. E questo avviene semplicemente non chiamandola in causa quando si affronta il tema della crisi. La crisi di cui si può parlare rimane quella del debito pubblico e l’economia sembra restringersi al solo budget di stato.
Come tagliare la spesa pubblica? Quali voci precisamente? Come ridurre l'IMU senza aumentare l'IVA? Come pagare la cassa integrazione senza togliere fondi alla formazione professionale? E se si vogliono mantenere almeno le apparenze di un welfare, dove prendere i soldi?
Così, mentre il ritornello della “coperta troppo corta” viene ripetuto all’infinito, nessuno pensa che dall’enorme massa di ricchezza rappresentata dai grandi patrimoni, risultato di decenni di profitti d’oro e di rendite favolose, si possa prendere quello che serve per garantire un livello minimo di condizioni civili a tutti. L'argomento è completamente assente.
Ma il caso ILVA ha aperto uno squarcio sul mondo della ricchezza e dei ricchi. Il solo sequestro dei beni personali di Emilio Riva è un affare da 1 miliardo e 200 milioni di euro. A questi si aggiunge il sequestro di 8,1 miliardi di euro sul patrimonio della finanziaria di famiglia. Un totale che equivale più o meno al gettito dell'acconto dell'IMU nel giugno 2012. Tutta questa ricchezza è nelle disponibilità di una sola famiglia!
L'azione della magistratura di Taranto ha permesso di “dare una sbirciatina” ai veri forzieri del capitalismo italiano. Ma di forzieri e di miliardi ce ne sono molti di più .
Diciamo allora come stanno le cose: non è vero che la crisi ci pone di fronte alla scelta fra tasse sulla casa o tasse sui beni di consumo, fra garanzia della cassa integrazione o possibilità di apprendere un mestiere, fra curarsi o avere una pensione. No, questa scelta ce la pone una ben definita classe sociale, così come ce la pongono i suoi portavoce di qualunque colore. Nella società esistono riserve di ricchezza che potrebbero consentire di affrontare le difficoltà economiche e la miseria di milioni di persone senza lavoro o con salari da fame.
I soldi ci sono! Occorre la forza sociale e la volontà politica di prenderli dove stanno.