Il 15 gennaio il Parlamento britannico ha respinto l'accordo concluso tra il governo di Theresa May ed i rappresentanti dell'Unione europea, che mirava a definire le relazioni tra l'UE e la Gran Bretagna quando sarà uscita dall'Unione. Si apre un nuovo periodo di incertezze politiche e economiche che comporta anche nuove minacce per i lavoratori del paese.
Quando aveva organizzato il referendum sull'appartenenza o meno all'UE nel giugno 2016, il Primo Ministro conservatore David Cameron sperava così di tagliare l'erba sotto i piedi dei sovranisti che gli facevano concorrenza sulla sua destra. La vittoria a sorpresa del Brexit aveva rovinato i suoi piani e si era dimesso, lasciando il posto ad un'altra dirigente del partito conservatore, Theresa May, col compito di attuare questa rottura con l'UE per la quale essa non aveva fatto campagna.
Un conto sono le rivalità tra politici, e un altro sono gli interessi capitalisti. Nella sua grande maggioranza, la classe capitalista britannica non desiderava rinunciare all'accesso al mercato europeo, e anche i capitalisti continentali ritenevano importante che la Gran Bretagna rimanesse a far parte del mercato unico europeo. Gli sforzi della May sono dunque consistiti nel negoziare un'uscita ufficiale dall'UE che fosse tale che gli scambi di merci e di capitali potessero continuare come prima. Invece per dare qualche soddisfazione ai demagoghi sovranisti, la May ha fatto grandi dichiarazioni contro l'UE e varato provvedimenti contro i migranti ed i cittadini comunitari presenti nel paese. Così, il suo governo ha annunciato che in mancanza di accordo i visti di soggiorno a lungo termine sarebbero rilasciati solo ai lavoratori europei capaci di giustificare un salario annuale di 30.000 sterline (33 000 euro attualmente). Attenzioni per gli interessi dei capitalisti e discriminazioni per i lavoratori stranieri più poveri, questa è stata la linea di condotta della May in questi negoziati.
La prospettiva del Brexit non ha fatto uscire la Gran Bretagna dalla crisi economica. Anzi, l'ha peggiorata facendo cadere la sterlina. Numerosi politici del suo partito si sono dissociati da Theresa May. Alcuni giocano la carta di una demagogia ancora più reazionaria, ed altri quella della rinuncia al Brexit. Quanto al partito laburista, i suoi aderenti sono per lo più contrari all'uscita dall'UE mentre il suo dirigente Jeremy Corbyn continua di dire che vi è favorevole.
Quindi il governo di Theresa May ha grandi difficoltà ad ottenere una maggioranza in Parlamento per l'accordo negoziato con l'UE, anche se dal punto di vista dei capitalisti britannici sarebbe la soluzione migliore per salvare i loro interessi pur sembrando adeguarsi alla presunta volontà del popolo. È possibile che un termine supplementare sia accordato dall'UE per rilanciare negoziati, oppure che la May debba dimettersi, cosa che potrebbe comportare nuove elezioni e forse una vittoria dei laburisti, a meno che convochi un nuovo referendum sull'uscita dall'UE. La crisi economica ha così portato ad una crisi politica che sembra senza via d'uscita perché i politici borghesi britannici, per provare a mantenere i consensi elettorali, sanno solo farsi concorrenza in materia di demagogia reazionaria.
Il Brexit è un veleno perché tende a dividere i lavoratori tra quelli favorevoli o meno all'uscita dall'UE mentre i loro interessi di classe non c'entrano per niente, ed anche perché alimenta i pregiudizi nazionalistici e quelli diretti contro i lavoratori stranieri.
I lavoratori non hanno nulla da aspettarsi da questo sistema politico e da questi politici che, nella crisi aperta dal Brexit, danno un'ulteriore dimostrazione della loro irresponsabilità. Possono fidarsi solo delle loro proprie forze e della loro capacità di difendere i loro interessi sul terreno della lotta di classe.
P.R.