Gli operai della Fiat e dell’indotto sfilano a Torino contro i piani di chiusura

Il 15 maggio un lungo corteo di tutte blu ha attraversato i quartieri sud della Torino operaia riscuotendo l’approvazione e la solidarietà di molti abitanti affacciatisi ai balconi e alle finestre delle case per salutare i manifestanti. Diecimila lavoratori della Fiat e di molte aziende dell’auto, partiti dalla porta 5 delle Carrozzerie di Fiat Mirafiori, sono confluiti davanti al Lingotto, sede del centro direzionale Fiat. C’erano gli operai di Mirafiori, dell’Iveco, di Pomigliano, di Termini Imerese, di Melfi e degli altri stabilimenti Fiat italiani, c’erano gli operai dell’indotto, quelli della Cnh, della Comau, della Bertone e di tante altre aziende a rischio di ridimensionamento o di chiusura.

E’ stata una manifestazione contro il rischio di smantellamento di intere fabbriche della Fiat in Italia come conseguenza delle operazioni Chrysler ed Opel che Fiat sta portando avanti negli ultimi mesi. Dagli slogan, ma anche dai volti degli operai traspariva tanta rabbia e la consapevolezza che solo la lotta potrà fermare i disegni di Marchionne e soci, ma anche la forte preoccupazione che presto le ore di cassa integrazione finiranno per la Fiat come per tante altre aziende e si aprirà la prospettiva della perdita del posto di lavoro a fronte di una crisi che, al di là delle demagogiche rassicurazioni di governo e Confindustria, non accenna a rientrare, anzi si sta aggravando. Senza contare che per molte piccole imprese la cassa non c’è mai stata, così come un’alternativa al licenziamento. Molti gli slogan e i cartelli che denunciavano la compresenza in Fiat di cassa integrazione e di straordinari.

Il giorno prima, molto opportunamente, dall’assemblea degli operai di Mirafiori è giunta la proposta di blocco degli straordinari. E’ stata una manifestazione dove traspariva chiaramente che gli operai non accetteranno passivamente di pagare la crisi creata da banchieri e padroni. Quella che invece è mancata, in questo importante appuntamento, è la chiarezza degli obiettivi e di una prospettiva dal punto di vista degli interessi operai. Le direzioni di Fim, Fiom, Uilm, e Fismic, promotrici della manifestazione, non sono andati oltre un generico appello a Fiat e governo di aprire un tavolo di confronto prima che le operazioni in corso vadano a compimento. Si è chiesto di non chiudere gli stabilimenti Fiat italiani (chiusure no, ridimensionamenti si?), che la produzione Fiat resti prevalentemente in Italia. Non c’è stato un netto e forte no a nessun licenziamento, una chiara rivendicazione di difesa salariale di fronte a salari ridotti spesso a 600 euro al mese a causa della cassa. Non si è chiesto agli operai di lottare perché siano i responsabili della crisi a pagarla con i profitti accumulati grazie ad anni di sfruttamento nelle fabbriche e di speculazione finanziaria in Borsa. Non è emersa, da parte delle direzioni sindacali (e come avrebbe potuto!) nessuna volontà di rispondere ai disegni internazionali di fusioni e accorpamenti da parte della Fiat con un piano di lotta d’insieme delle decine di migliaia lavoratori americani, tedeschi e italiani che, se resteranno isolati e messi gli uni contro gli altri, pagheranno con la perdita del posto di lavoro quei disegni.

Solo una lotta che li veda uniti farà piazza pulita di tutte le illusioni, purtroppo presenti in qualche slogan del corteo, seminate dalle burocrazie sindacali per far credere che il lavoro italiano si può salvare a discapito di quello tedesco o americano.

La manifestazione si è conclusa con una contestazione dello Slai Cobas durante il comizio dei segretari confederali. I lavoratori aderenti al sindacato di base di Arese e Pomigliano rivendicavano il diritto di parlare sul palco. Ad un certo punto la tensione è cresciuta e, nel parapiglia, il segretario Fiom Rinaldini è scivolato. Allla fine un rappresentante della Slai riusciva a prendere la parola per ricordare che la Fiat sbatte gli operai in cassa integrazione e minaccia la chiusura di stabilimenti mentre continua ad accumulare profitti. Quando il comizio volgeva al termine gran parte degli operai aveva abbandonato il luogo del comizio.

Non si è trattato, come mass media, politici, sindacalisti e padroni hanno voluto far credere il giorno dopo, di un’aggressione dello Slai ai dirigenti sindacali. Tanto meno di un atto di squadrismo, come vergognosamente lo ha etichettato l’ex leader Cgil e sindaco uscente di Bologna Sergio Cofferati. La mala fede di questo sindacalista riconvertito in politico si è spinta al punto di affermare che tale episodio gli ha ricordato quanto avvenne «nel settembre ’92 quando proprio a Torino venni duramente contestato dagli autonomi». Allora non si trattò di una contestazione di pochi estremisti, ma di una inequivocabile protesta degli operai contro l’ultimo mortale colpo alla scala mobile decretato dal patto “contro l’inflazione” firmato dal governo Amato e dai sindacati confederali. Questa volta si è invece trattato di una protesta di aderenti allo Slai, certamente vivace ma non tale da essere definita un’aggressione e tanto meno “un atto di squadrismo” (ma per Cofferati il diritto di parola deve essere garantito solo alle burocrazie e ai rappresentanti delle istituzioni, tutti gli altri per lui, evidentemente, sono “fascisti”).

Che la protesta non sia stata tutto questo lo dimostrano le foto comparse sui giornali che ritraggono un sindacalista dello Slai che aiuta Rinaldini a rialzarsi dopo l scivolone sul palco. E’ stata, questo sì, un’iniziativa autoreferenziale, distaccata dallo stato d’animo e dal livello di coscienza dei lavoratori, scesi in piazza per lottare contro il rischio di perdere il posto di lavoro ma non ancora con la determinazione di impedire ai burocrati futuri e certi cedimenti. In questo senso si può parlare di un’azione poco utile a far crescere nei lavoratori la consapevolezza di dover contare esclusivamente sulla propria forza. E’ stata, nel contempo, un sintomo che nel prossimo futuro il conflitto sociale potrà diventare incontrollabile. E’ lo stesso Rinaldini a doverlo implicitamente riconoscere liquidando, è vero, l’episodio come un atto di teppismo, ma avvertendo i padroni che «se pensano di chiudere gli stabilimenti creano una situazione esplosiva di cui si assumeranno la responsabilità». Di certo la responsabilità non sarà dello Slai Cobas!

Corrispondenza da Torino