L'Italia deve ripartire. Le fabbriche devono correre. L'industria del turismo deve riprendere. Tutto è stato fermo troppo a lungo. Bisogna recuperare il tempo perduto. Bisogna recuperare soprattutto il profitto perduto
Ora che sono passate la seconda e la terza ondata del virus, non sapendo ancora se e come si presenterà la quarta, si prospetta comunque una tregua, un arco di tempo nel quale, anziché il virus, sembra correre in maniera ossessiva l'imperativo a rifarsi dei profitti perduti. Le aziende non ci vedono più dalla smania di ricominciare a macinare gli incassi di pre-pandemia. Tutti i settori sono coinvolti, e ora più che mai quelli che finora sono stati esclusi dalla ripresa: turismo, ristorazione, servizi, svago. Ma non solo. Quasi tutti i settori, a parte quelli che hanno riguardato i servizi sanitari e la produzione dei beni necessari a fronteggiare l'emergenza sanitaria, tutti - quale più, quale meno, sono stati coinvolti da una crisi di produzione e hanno fretta di riprendere. Per questo fin dall'autunno non sono state bloccate molte attività industriali e le fabbriche sono rimaste aperte e funzionanti, per questo sono stati approvati i provvedimenti che incentivano le attività in edilizia, come il superbonus del 110%, o la proroga dei vari bonus per l'edilizia residenziale, per questo sono state adottate misure tali da confinare gli abitanti all'interno dei comuni di residenza, pur continuando comunque - quando non hanno perso il lavoro - a lavorare. Sicuramente il numero degli occupati ha subito un calo, così come ha subito un calo la quantità di lavoro. A questo calo ha corrisposto un calo degli infortuni e delle denunce di infortunio, ma non sono calati invece gli incidenti mortali.
Secondo i dati rilevati dall'Inail, gli omicidi bianchi sono stati 306 nel primo quadrimestre 2021, con un incremento del 9,3% rispetto allo stesso periodo del 2020; e ciò nonostante a marzo-aprile 2020 ci fosse stato un altro incremento rispetto al 2019, dovuto ai morti nel settore sanitario a causa della pandemia. Non se ne sono accorti in molti, finché l'opinione pubblica non ha dovuto subire una scossa emotiva molto forte, con la morte della ventiduenne operaia toscana Luana D'Orazio, letteralmente ingoiata dal meccanismo di un orditoio a Oste di Montemurlo, nel distretto tessile di Prato. Non era il primo caso in una fabbrica tessile nel 2021; a febbraio era morto un ragazzo tunisino di 23 anni, schiacciato sotto una pressa che stava pulendo, a Montale. Ma stampa e giornali hanno insistito per giorni su aspetti che non avevano niente a che vedere con l'infortunio mortale, scavando senza motivo nella vita privata della ragazza, perché era giovane, bella, e madre, e dedicando molta meno attenzione al fatto che era un'apprendista che lavorava da sola, senza adeguato affiancamento, su un impianto molto pericoloso, dal quale a quanto pare erano state rimosse le apparecchiature di sicurezza e il blocco in caso di malfunzionamento.
Pagheranno per questo i titolari della fabbrica e chiunque abbia privato il macchinario dei sistemi di sicurezza? Purtroppo, malgrado gli infortuni mortali si verifichino a un ritmo di oltre due casi al giorno, non altrettanto si può dire di processi conclusi e imprenditori condannati. Né la strage si è fermata dopo l'ondata di emozione collettiva: nella stessa settimana si sono registrati altri dieci casi di infortuni mortali. Certo che non si deve morire di lavoro a 22 anni: ma, come ha ricordato con lucidità la madre della ragazza, non si deve morire di lavoro né a 20 né a 40 né a 60 anni. Atroce che la titolare dell'orditoio si sia offerta di pagare le spese del funerale, come un tempo i padroni delle ferriere di Piombino acquistavano i loculi al cimitero per seppellire i loro morti di fabbrica, quasi fosse una spesa prevedibile e accettabile. Ma pur proclamando oggi "inaccettabili" le morti di lavoro, di fatto esse sono accettate come un inevitabile tributo alle necessità produttive.
Nemmeno i sindacati sembrano realizzare compiutamente la permanente gravità della situazione, ma qualcosa devono pur dire e fare: per esempio, una "giornata di mobilitazione con assemblee e presidi", tenutasi il 20 maggio senza che molti lavoratori se ne siano accorti. Nell'occasione, il segretario Cgil Landini si è espresso sulla necessità di fermare "questa strage inaccettabile [...] Bisogna agire sulla prevenzione per evitare che la gente, lavorando, debba morire. Questo vuol dire aumentare le assunzioni negli ispettorati del lavoro, nei servizi di medicina territoriali. E vuol dire far diventare la formazione sul lavoro un diritto permanente sia per i lavoratori sia per i datori di lavoro". L'accento sulla formazione è veramente curioso: lo sa Landini cosa significa rifiutarsi di svolgere un lavoro che non rispetti le norme di sicurezza? Nessuno gli avrà mai riferito che l'alternativa è farsi spedire a casa? E lo saprà che i datori di lavoro solitamente se ne fregano della formazione sulla sicurezza, salvo il rispetto formale - e non sempre - dei corsi canonici? Quanto alla loro stessa formazione, la cabina precipitata dell'impianto del Mottarone, con le sue 14 vittime, basta a rendere chiaro il concetto: non c'era bisogno di molti corsi per capire che l'impianto non era sicuro, senza sistema frenante. Dopodiché i gestori dell'impianto potranno anche sostenere di non sapere niente della manomissione dei freni, e che tutta la colpa attiene al coordinatore dell'impianto, che ha ammesso il suo errore. Il processo riuscirà a far luce su tutte le responsabilità?
La realtà è che la sicurezza è vissuta da sempre dagli imprenditori come un inutile orpello, un freno a profitti sacrosanti e dovuti. Ora che per mesi questi profitti hanno dovuto subire rallentamenti e fermate, di fronte alle quali c'è stata insofferenza e frenetica smania di riprendere, ora che finalmente i freni si sono allentati... le imprese devono lavorare, le imprese devono correre! Non ci devono essere lacci e lacciuoli. La vita, vuoi di chi lavora, vuoi di chi vuole andare in gita con la famiglia, non si garantisce.
Aemme