Gli animali di Confindustria
Ci sono momenti nella storia in cui la realtà supera la fantasia. Così abbiamo appreso che in Val Seriana mucche, pecore, cavalli, e forse pure cani e gatti si sono presentati ai cancelli delle fabbriche, hanno timbrato il cartellino, hanno raccolto l’infezione letale e poi sono usciti a infettare le loro greggi
Così parlò Confindustria Lombardia, nella persona del suo presidente Marco Bonometti. Intervistato dal giornale online TPI, testualmente a domanda risponde:
“Lei come se li spiega tutti questi morti in Lombardia e soprattutto nella bergamasca?"
"Ci sono diverse ragioni: innanzitutto qui c’è una presenza massiccia di animali e quindi c’è stata una movimentazione degli animali che ha favorito il contagio, parlo degli allevamenti, e questa potrebbe essere una causa."
"In che senso, mi scusi? Gli animali non sono considerati veicolo di contagio di questo virus."
"Se non sono stati ritenuti veicolo di contagio, non c’è spiegazione, anche se un’altra causa è che si tratta di zone densamente popolate da industrie e quindi la movimentazione delle merci e della gente ha certamente favorito. Non all’interno delle fabbriche, però, perché le fabbriche sono considerate per noi i luoghi più sicuri”.
È lo stesso Bonometti che il 29 febbraio denunciava un “danno di immagine” per “l’Italia isolata” e con la zona rossa “che crea danni economici anche alle altre aziende”; lo stesso che ribadisce a oltranza il no alla zona rossa in Lombardia perché non si può fermare la produzione , ma chiede liquidità immediata al Governo e la sospensione delle scadenze fiscali.
Da giorni si dibatte sui giornali e in televisione sui motivi dell’espansione del contagio di coronavirus in Val Seriana, nella provincia di Bergamo e nel bresciano. Sul perché e sul come nella zona di Codogno, ufficialmente il primo focolaio del virus, chiuso immediatamente dopo il primo contagio, l’epidemia sia stata contenuta, e sul perché e sul come in Val Seriana sia stato un massacro. Si chiama giustamente in causa la mancata chiusura dell’ospedale di Alzano Lombardo, ma solo dopo oltre un mese l’evidenza dei fatti ha messo sotto gli occhi di tutti la circostanza che tra Nembro e Alzano Lombardo si contano 376 aziende per quasi quattromila dipendenti, e che nell’intera Lombardia le aziende sono quasi 14.000 e in larga parte hanno continuato a lavorare ad oltranza, sgomitando senza scrupoli per essere inserite nelle liste di quelle a cui è stato consentito di continuare a rimanere aperte. Così, come era già accaduto agli albori della crisi in Cina, dove la zona industriale di Wuhan aveva fatto da detonatore allo scoppio della crisi, la ricca Lombardia della produzione industriale e dei mega centri commerciali ha amplificato a dismisura il contagio. E non appena si è cominciata a spargere la voce delle possibili chiusure di fabbriche e negozi, la produzione ha continuato senza soste, per per fare più profitti possibile, nel timore di essere fermati.
Bergamo non si ferma! Incitava il Sindaco Gori, un personaggio del quale gli abitanti di Bergamo e provincia dovranno ricordarsi, se riusciranno a uscire indenni da questa mattanza. Venite a fare shopping a Bergamo, che vi facciamo gli sconti. Prono al dettato della stessa Confindustria, il 28 febbraio con ineffabile tempismo ha postato sui propri canali social un breve video che invitava la cittadinanza di Bergamo e di fuori Bergamo ad accomodarsi nelle vie della sua città, evidentemente per contribuire allo smaltimento delle merci che non dovevano rimanere invendute. Il quotidiano online Bergamo News così presentava il provvidenziale intervento: “Il video arriva dopo i numerosi messaggi d’ottimismo rivolti negli scorsi giorni dal sindaco Giorgio Gori alla cittadinanza, che aveva sì evidenziato come questa emergenza sanitaria stesse mettendo in crisi turismo, ristorazione e commercio della città, ma anche ipotizzato come presto ci saremmo potuti mettere questo “incubo” alle spalle”. Pochi giorni dopo l’incubo passava sotto casa, nei camion militari che trasportavano fuori provincia le salme delle vittime del virus, ormai troppe per essere cremate nel cimitero monumentale.
Nel frattempo, la produzione industriale non si è mai veramente fermata. Mentre tutti i canali televisivi e online diffondono fino alla nausea l’invito a restare a casa, declinato in tutte le salse – da quella melliflua dei personaggi dello spettacolo con frizzi e lazzi, a quella perentoria delle forze dell’ordine con multe e denunce – nelle fabbriche si è respirata – per dirla con le parole dell’epidemia – tutt’altra aria. Se all’inizio della crisi alle commesse di un supermercato del bresciano era stato imposto di non usare le mascherine “per non spaventare la clientela”, in fabbrica per settimane si è continuato a lavorare in mille sotto un capannone, senza presidi sanitari, quando magari si erano già verificati nei reparti dei casi di positività. Se la distanza di un metro mette veramente al sicuro dall’infezione, negli stabilimenti e nei cantieri, ma anche nelle banche e negli uffici postali, è rimasta largamente un miraggio. E la stessa persona additata come untore se cammina per strada, sui posti di lavoro improvvisamente non è più tale. Produrre giustifica tutto, anche la malattia, le famiglie contagiate, i morti, gli ospedali al collasso.
Chissà se mai qualcuno sarà chiamato a rendere conto di quanto successo dalle origini di questa epidemia, se mai i responsabili dovranno rispondere per quanto è stato detto e fatto, e non solo nel periodo cruciale, ma anche prima e dopo. Se ci sarà mai qualcuno che pagherà, non solo per i ritardi, le incurie e le omissioni, ma soprattutto per le azioni portate avanti scientemente, nell’unico interesse della produzione e del profitto. Difficile che capiti. Non ora, non qui, non per quello che stiamo continuando a vedere nelle dichiarazioni confindustriali e nelle decisioni compiacenti della classe politica. Non se a parlare prima di tutti e sopra a tutti sono gli stessi che decidono senza chiedere il permesso a nessuno. Sicuramente no, se non riusciremo a imporre i bisogni delle persone sulla legge del profitto.
Aemme