C’è chi la chiama “modernizzazione”. In un recente epitaffio del Sole 24 Ore in memoria di Gino Giugni, “padre” dello Statuto dei Lavoratori, il giornale di Confindustria accredita Giugni del merito di avere riconosciuto gli anacronismi dello Statuto, come la chiamata numerica dei lavoratori e il monopolio pubblico del collocamento. Infatti, dice, questi “anacronismi” hanno subito i “colpi della modernizzazione”. La modernizzazione sarebbe poi tornare alle origini: forza lavoro da sola di fronte al capitale.
Tre milioni e ottocentomila lavoratori: questo era il dato ufficiale che l’Istituto Nazionale di Statistica dava nel 2007 per definire il numero dei precari in Italia. Uno studio recente dell’Università Bocconi di Milano stima in 4 milioni e mezzo il numero dei precari, tra dipendenti a termine, para subordinati, apprendisti etc., mentre un’indagine della CGIA di Mestre (Associazione Artigiani e Piccole Imprese) fissa il numero intorno ai tre milioni e mezzo. In realtà si dura fatica a districarsi tra i dati ufficiali sul lavoro precario, perché data la varietà di forme e di situazioni, unita alla fluidità estrema del sistema, è molto difficile fissare una fotografia certa.
Il numero di tipologie introdotte nel 1997 dal cosiddetto pacchetto Treu, o Legge 196, integrate e definite successivamente dalla cosiddetta legge Biagi, o Legge 30 del 2003, è pressoché inesauribile: va da sé inoltre che non si è estinto il sempre in auge lavoro nero, tuttora gagliardo sebbene per introdurre una sempre maggiore precarizzazione si sia spesso invocato come pretesto “l’emersione del lavoro nero” (come no!)
Alla libera fantasia delle imprese viene comunque affidata una vasta gamma di forme di sfruttamento: c’è il lavoro interinale o “in affitto”, fornito da agenzie di somministrazione lavoro, di intermediazione, ricerca e selezione del personale e di supporto alla ricollocazione professionale, cioè tutta una serie di soggetti di intermediazione che prima della 196 in Italia erano proibiti; c’è il lavoro accessorio (si comprano i “buoni” prepagati), il lavoro ripartito (tra due lavoratori), e il lavoro intermittente o a chiamata; c’è il contratto di collaborazione a progetto (che sostituisce il precedente contratto di collaborazione coordinata e continuativa); c’è il contratto di inserimento o reinserimento, un succedaneo del contratto di formazione e lavoro; c’è l’apprendistato per istruzione e formazione, l’apprendistato professionalizzante e perfino quello per l’acquisizione di un diploma, che però non è ancora definitivamente normato; infine ci sono le partite IVA, ovvero lavoratori imprenditori forzati, costretti a prestare lavoro dipendente ma con la totale libertà delle imprese su di loro.
Una partita IVA è un lavoratore che si può lasciare se conviene e riprendere a piacimento, costa poco (il 25% in meno rispetto a un contratto di collaborazione e il 33% in meno rispetto a un contratto “normale”, secondo il segretario confederale Cgil Fulvio Fammoni), e in tempi di crisi è più che flessibile: una formula di successo, se è vero che riguarda ormai il 27% dell’occupazione complessiva. Già nel 2007 le partite IVA – c’è chi pomposamente le definisce “imprenditori di se stessi” - erano cresciute di 30.000 unità in un solo anno.
Inconsistenti per tutte queste tipologie le possibilità di passare a un lavoro a tempo indeterminato: già prima della crisi solo un giovane su tre riusciva a trovare un lavoro a tempo indeterminato, e le probabilità di passare da un lavoro temporaneo a uno stabile non arrivavano al 10% nel 2004-2005.
In tutto questo, se fosse vero che capitale e forza lavoro stanno nella società come due entità sullo stesso piano che liberamente contrattano i loro rapporti, allora un rapporto di lavoro precario dovrebbe costare molto di più all’impresa, perché le offre opportunità enormi, e ne toglie di altrettanto enormi al lavoratore. Con meno garanzie, meno tutele, meno pensione, meno tutto, un lavoratore dovrebbe essere compensato molto di più. Guarda caso non è così, e i reali rapporti di forza sono chiari quando la debolezza del lavoratore isolato, la sua ricattabilità, il rischio di licenziamento costante lo mettono nella condizione di percepire un salario più basso. E non solo: tendenzialmente si abbassa anche il salario di chi ha un lavoro tutelato e a tempo indeterminato, perché si svaluta il valore del lavoro stesso. Perché mai un padrone dovrebbe pagare di più un lavoro che può pagare molto meno?
L’adesione politica all’adozione di queste forme di lavoro è – come si suol dire – trasversale: Treu faceva parte del primo governo Prodi, e annoverava Biagi tra i suoi consulenti. Per la cronaca, a suo tempo anche Rifondazione Comunista votò il pacchetto Treu, e su Liberazione dell’8 maggio ’97 si leggeva che si trattava di “primi passi per l’occupazione”. La legge 30 ha caratteristiche di continuità e assoluta coerenza con le disposizioni precedenti. A riprova che le due formazioni, di destra o di sinistra che siano, possono avere punti di vista articolati su svariate questioni, ma hanno interessi assolutamente convergenti sulle forme di sfruttamento della classe operaia; salvo poi, per alcune componenti politiche, piangere le lacrime del coccodrillo.
E mentre la crisi continua a falcidiare posti di lavoro (secondo stime recenti superano il mezzo milione i posti di lavoro persi), i lavoratori con contratti temporanei e atipici subiscono la gran parte dei tagli. Secondo Repubblica del 23 settembre scorso, tre posti di lavoro su quattro distrutti dalla crisi sono contratti a tempo determinato, collaborazioni coordinate e continuative e lavori autonomi fittizi, che mascherano altrettanti posti di lavoro dipendente. Nessun ammortizzatore sociale è previsto per questi lavoratori, nessuna indennità e nessun tipo di integrazione al reddito: la disoccupazione è interamente a loro carico. La cassa integrazione non ha soltanto la funzione di assicurare un minimo di reddito, ma anche quella di conservare un legame con il posto di lavoro e fornire una prospettiva di continuità, che rimane riservata però solo a una minoranza dei lavoratori. Per la maggior parte c’è il nulla, e il nulla riguarda la fascia più giovane della popolazione: il tasso di disoccupazione della fascia d’età compresa tra i 15 e i 24 anni è cresciuto di 5 punti percentuali in Italia nell’ultimo anno ed è pari al 26%. E se tra i lavoratori italiani il rischio povertà è più alto della media Europea e riguarda il 10% contro l’8% in Europa, per i lavoratori precari schizza al 19% contro il 13% della media europea.
Recentemente in un dibattito televisivo Maurizio Lupi, vicepresidente PDL della camera dei Deputati, rivendicava come un successo del Governo Berlusconi l’aver sostenuto la crisi economico-finanziaria senza manifestazioni di tensione sociale e senza scioperi. Che ci sia assenza di reazione, o scarsa reazione, è vero. Quanto ai motivi, la faccenda è un po’ più complicata, e non riguarda solo il Governo attuale; dare una risposta articolata in questo momento è molto difficile. Però si può almeno guardare alle nostre spalle per vedere come la classe operaia sia stata progressivamente defraudata degli strumenti di reazione, sfibrata nella sua composizione, privata di una strategia complessiva, ma anche di tattiche elementari come la semplice difesa economica. In questo senso il sindacato stesso, in particolare la Cgil, che ha accettato negli anni il sostanziale smantellamento delle forme di impiego, oggi non riesce a elaborare nemmeno una formula difensiva efficace, ed è ridotta all’angolo dal progressivo adeguamento degli altri sindacati come “enti bilaterali” di servizio e consulenza.
Ricostruire un’unità di obiettivi, ricomporre la coscienza degli interessi comuni di tutti i lavoratori, soprattutto una coscienza politica, non sarà facile. Ma è l’unica via d’uscita.