La crisi del capitalismo, della sua economia, è qualche cosa di molto concreto. Come lo sono le centosessanta crisi aziendali, dalla Whirlpool alla Pernigotti, al Mercatone Uno, alla Ferriera di Trieste, con decine di migliaia di posti di lavoro a rischio, i cui dossier giacciono, da anni, sulla scrivania del Ministero dello Sviluppo economico.E questi sono solo i casi più noti, quelli “curati” dal Ministeroattraverso i famosi “tavoli di crisi”. Ma, tavoli o non tavoli, la crisi prosegue. Ed è mondiale: “un rallentamento sincronizzato” come ha detto la capo economista del FMI, Gita Gopinath.
I governi, con le loro leggi finanziarie non possono cambiare le cose. Almeno fintanto che la parola governo sarà sinonimo di comitato d’affari del capitalismo. Tutti i partiti di governo e d’opposizione difendono un sistema economico-sociale che produce, per sua natura, crisi sempre più frequenti e drammatiche. Da questa cornice non si muovono, per quanto si dichiarino riformatori. Così le leggi finanziarie si limitano a dare qualche briciola di spesa pubblica qua e là, per quanto riguarda la classe lavoratrice e gli altri ceti popolari, avendo però cura che si mantenga abbondante il fiume di denaro che, in una forma o nell’altra, finisce nel mondo delle imprese ed evitando di disturbare, in generale, le classi più ricche.
Ad esempio, non c’è esponente politico che non lamenti le scarse risorse “disponibili” per la scuola, la sanità, l’assistenza ai disabili o per le misure contro la povertà. A tutta questa gente “dispiace” di non poter fare di più ma, dicono, “la coperta è stretta”. Sì, certo, se ci si rifiuta di prendere i soldi dove sono! Basterebbe un prelievo non omeopatico sulle maggiori ricchezze perché la coperta si allungasse considerevolmente. Basti pensare che il 5% più ricco degli italiani possiede il 47% della ricchezza nazionale, cioè 3828 miliardi di euro. Quanta gente si potrebbe curare, quanti medici e insegnanti si potrebbero assumere, quanto territorio potrebbe essere messo in sicurezza solo con il 10% di questa ricchezza? E, certamente, i nostri ricconi non andrebbero sul lastrico.
In qualunque modo lo si giri, il problema dell’ingiustizia sociale, così come tutti gli altri problemi che costituiscono una minaccia per il presente e il futuro dell’umanità, richiedono soluzioni radicali che fanno a pugni con l’attuale sistema economico-sociale. E la grande borghesia, quella stessa classe che si è arricchita in questi anni di crisi, può lasciare che i partiti si facciano la guerra tra loro sulla “politica economica” più giusta, dato che i suoi privilegi non sono minimamente messi in discussione.
Ai partiti del capitalismo, dal PD ai Cinque Stelle, alla Lega ai vari partiti e partitini fascisti e nazionalisti, non si oppone ancora nessun partito che abbia nel proprio programma il superamento del capitalismo e la costruzione di una società comunista. Costruire questo partito è sempre di più all’ordine del giorno. Non esiste un’altra via. Questo è l’unico strumento di lotta politica per i lavoratori, per non farsi isolare in lotte sterili azienda per azienda, per non farsi ingannare da promesse che nessuno ha intenzione di mantenere, per non legare la propria esistenza alla lotteria della “competitività”. Perché un programma comunista non rappresenta solo un progetto per il futuro, ma anche una visione reale, concreta, scientifica della società, dei rapporti di forza che la sostanziano, degli interessi che la guidano. Il marxismo è la “scienza della rivoluzione”, ma anche quella delle lotte quotidiane.