Di certo non si esaurirà con l’accordo e il referendum, la vertenza sulla ex Lucchini di Piombino - ormai AFERPI - gestita dal gruppo algerino Cevital. In vista c’è un lungo percorso, costellato di assunzioni parziali, bassi salari e ancora cassa integrazione.
Non c’erano molte possibilità che finisse diversamente, dopo anni di situazioni in stallo, con la perenne incertezza sulle prospettive, con l’iniziativa sindacale sempre giocata sul terreno scelto dall’azienda, e quasi sempre senza uscire da un orizzonte prettamente aziendale e locale. A momenti di lotta vivaci e partecipati hanno fatto da contrappunto sindacati e istituzioni sempre pronti a frenare, a mantenere sotto tono il disagio e la rabbia dei lavoratori. Non c’è mai stato il tentativo di trasformare la vertenza Piombino in una vertenza nazionale dell’acciaio; raramente si è andati oltre il confronto istituzionale con amministratori locali e regionali; sporadici i tentativi di coinvolgere altre fabbriche siderurgiche, almeno quelle del gruppo.
Non è facile del resto gestire in un lungo periodo vertenze così complesse e così ad alto rischio, e ovviamente non lo è stato neanche nel caso delle Acciaierie di Piombino. Il periodo difficile non ha aiutato, né dal punto di vista della crisi, all’ombra della quale ormai si cerca di far passare nei lavoratori (quasi) tutto, né dal punto di vista del livello di coscienza e di consapevolezza dei lavoratori, disorientati e scoraggiati da anni di arretramento, e dalla sostanziale assenza di una direzione, sindacale e soprattutto politica.
Con queste premesse è stato raggiunto l’accordo tra Sindacati, istituzioni e Cevital, sulle condizioni di riassunzione degli ex dipendenti del gruppo Lucchini, dopo una lunga trattativa e la richiesta del gruppo algerino di sottoporre l’accordo a un referendum consultivo, in modo da non avere poi difficoltà nell’applicazione. Quindi non c’è molto da stupirsi, se un accordo tuttora fumoso, con garanzie tutte da verificare, e molto spesso anche sostanzialmente sconosciuto ai lavoratori, sia stato portato al voto nel consueto referendum dal risultato scontato, e abbia avuto come esito il risultato – scontato, appunto – di una vittoria del 91,6% di sì. Alla consultazione, che si è tenuta dopo una serie di assemblee “informative”, avevano diritto al voto 2160 dipendenti dello stabilimento, ma non le ditte dell’indotto; di questi 2160, soltanto 1388 si sono espressi partecipando al voto. Premesso che il testo integrale dell’accordo non è stato preventivamente diffuso, i SI’ sono stati 1266, i NO 115, con un numero trascurabile di schede bianche e nulle e 772 astenuti, pari al 36% circa degli aventi diritto. Evidentemente chi non approvava l’accordo non è andato nemmeno a votare.
Nel coro unanime di tripudio apparso sui media, con pagine intere dedicate sui giornali locali ai commenti del sindacalista o del politico di turno – tutti improntati al giudizio positivo sulle sorti progressive, non solo della fabbrica e del territorio, ma anche dei suoi occupati, fa spicco l’asciutto commento che Il Sole 24 Ore dedica all’evento nelle sue news: quattro righe sul raggiungimento dell’accordo, con l’assunto finale “Ai lavoratori trasferiti ad Aferpi, in sintesi, saranno applicati esclusivamente i trattamenti economici e normativi del contratto nazionale dei metalmeccanici”. Così è, infatti, nonostante questo particolare, non trascurabile, abbia avuto una rilevanza di bassissimo profilo sui giornali e in tivù. Ogni integrativo aziendale risulta bloccato finché l’azienda non avrà ripreso – non semplicemente la produzione, ma a macinare utili, e comunque non prima di tre anni. Si può già immaginare quanto costerà riacquisire una contrattazione aziendale. Non a caso la Fiom nazionale, a differenza di quella locale, aveva espresso un giudizio negativo su questo aspetto; e tanto è vero che l’ostacolo è stato aggirato con la firma di due accordi distinti, uno più generale firmato dal sindacato nazionale, e uno specifico firmato dai sindacati territoriali, che contiene il criterio in questione. E’ una toppa che non si sa quanto possa tutelare eventuali altri contratti in ambiti diversi: si sa, una volta creato il precedente è difficile che non faccia gola a qualcuno. In linea di massima, questo giochino comporterà per i lavoratori che rientreranno in fabbrica un salario di poco superiore alla cassa integrazione, con una perdita secca di circa 500 euro lordi al mese.
Questo e altri punti critici sono stati evidenziati in una lettera aperta, inviata ai giornali da un gruppo di lavoratori, che si sono identificati semplicemente come “minoranza sindacale”. In un testo breve e chiaro sono elencate insidie più o meno nascoste, come il Dlgs 8.7.99 n. 279, ai sensi del quale è stato sottoscritto l’accordo, che prevede l’obbligo di proseguire le attività imprenditoriali e di mantenere i livelli occupazionali per almeno un biennio dopo la firma del contratto preliminare di vendita. E dopo due anni, che garanzie sono previste? A quanto pare nessuna garanzia, e nemmeno penalità a carico degli inadempienti. Il dubbio che Cevital miri non tanto alla fabbrica, quanto al porto e alle attività connesse, è più che legittimo. Che fine farà la siderurgia, nel giro di pochi anni?
Del resto a oggi non ci sono certezze neanche sui tempi di reintegro dei lavoratori in fabbrica, sul trattamento di quelli che al momento non rientreranno, sulla sorte dei lavoratori dell’indotto e di quelli che dovrebbero essere impiegati nel settore agroalimentare. E per finire l’azienda ha discrezionalità totale nella scelta dei lavoratori che dovranno rientrare per primi, e via via degli altri.
Non basta un accordo, e nemmeno un referendum dall’esito scontato, per mettere al riparo il futuro dei lavoratori piombinesi.
Corrispondenza Piombino