Il declino della Compagnia Portuale coincide con i decreti Prandini, duramente contrastati dai lavoratori tanto a Livorno quanto nelle altre città portuali, e con la riforma dei porti del 1994 che privatizzava gli scali portuali. A questo radicale cambiamento delle norme che in qualche modo tutelavano il lavoro portuale, si aggiunse la crisi e la trasformazione del PCI, il cui gruppo dirigente, com’è noto pensò che i lavoratori, e non solo quelli dei porti, non rappresentavano più una solida base sociale di riferimento. Non essendoci più alcun obbligo programmatico verso la classe lavoratrice, ridotta nel numero dalle varie ristrutturazioni, poteva cadere anche quella “politica portuale” del PCI che aveva trasformato le compagnie di molti scali in bastioni del partito. Un semi-monopolio politico ed economico. A Livorno, come a Genova o in altre città, i vecchi portuali ricordano un’epoca in cui non era nemmeno concepibile dire qualche cosa contro alla Compagnia e contro il partito. Chi lo faceva subiva l’ostracismo della maggioranza e pressioni di ogni tipo. Ma, detto tutto questo, è anche vero che in qualche modo la “politica portuale” del PCI, dovendo far propria la ragione di esistenza originaria delle compagnie di scaricatori di inizio ‘900, limitava gli effetti di una concorrenza sfrenata fra i vari porti e fra la manodopera di uno stesso porto che in altri tempi aveva significato la guerra tra lavoratori.
Sicuramente la 84/94 fu l’inizio di un percorso che doveva portare allo smantellamento delle Compagnie portuali, così come erano strutturate con l’art. 110 del Codice della Navigazione, che dava loro l’esclusività del lavoro in banchina. Ma bisogna anche osservare che le Compagnie portuali non compresero o non vollero comprendere che, nelle pieghe di quella legge, c’era un appiglio che avrebbe potuto consentire una nuova linea di difesa dei lavoratori. Fra le due “anime” delle compagnie, quella di associazione di lavoratori e quella di “azienda”, prevalse quasi ovunque quest’ultima, con la copertura ideologica del cooperativismo e con la condivisione di fondo della logica del capitalismo.
Sono passati circa vent’anni, tante Compagnie Portuali si sono sciolte e sono state acquisite da altri operatori, la legge mirava proprio a depotenziare il ruolo sociale che le distingueva da altri soggetti. All’interno degli scali è subentrata la giungla, con i lavoratori contro altri lavoratori a contendersi il lavoro a colpi di tariffe più basse nell’ambito dello stesso porto, lavorando ai limiti della sicurezza e spesso al nero. Tutto questo è diventato la regola. Ma su questo terreno le compagnie Portuali non sono competitive.
Nello scalo Genovese sembra che la Compagnia portuali (Compagnia unica lavoratori merci varie) stia provando a metter fine al gioco al massacro. Malgrado il calo dei traffici, a settembre 2009 è riuscita a fare un accordo con l’autorità portuale, diventando un pool di manodopera con tutti i suoi 1000 soci, in base all’art. 17 della stessa legge 84/94, e uscendo dalla logica delle aree di concessioni. E’ un ritorno alla naturale storia sociale delle Compagnie Portuali, ed è l’unico esempio in tutto il panorama portuale in Italia. L’articolo 17 riguarda la disciplina della fornitura del lavoro portuale temporaneo. Concentrarsi sull’organizzazione dell’offerta di forza-lavoro per imporre il più possibile tariffe e condizioni omogenee di lavoro agli armatori, mollando ogni pretesa di funzionare come un’azienda, pretesa che i fatti dimostrano fallimentare, è l’unica strada che può consentire di ricostituire nei porti la forza organizzata del mondo del lavoro. La Compagnia Portuale di Livorno ha limitato questa scelta alla sua partecipata: l’ Agelp con 68 addetti.
Ora i nodo vengono al pettine. La Compagnia Portuale di Livorno ha 400 soci e diverse realtà produttive sul porto, partecipate o controllate al 100%, e da alcuni anni i bilanci sono coperti da plusvalenze provenienti da vendite di beni. Il calo dei traffici, dovuto alla persistenza della crisi economica, ha giustificato l’introduzione del contratto di solidarietà ed ha aggravato la posizione debitoria con le banche. Il restringimento del credito, la mancanza di liquidità e l’imposizione del commissario finanziario hanno posto i vertici della Compagnia con le spalle al muro.
E’ una crisi finanziaria e gestionale senza precedenti. Un commissario finanziario significa mettere ordine nei conti di spesa innanzitutto e solo successivamente valutare le prospettive, che molto probabilmente non potranno più essere quelle di prima. È questa eventualità che ha fatto gridare al presidente della Compagnia, in una delle prime assemblee, “Abbiamo davanti a noi un’economia di guerra!”, riscuotendo alla fine l’approvazione del piano da parte dell’88% dei soci. Si tratta di un piano di risanamento impostato sui sacrifici, che prevede tagli del 20% dei salari nel 2012 e del 10% nel 2013, riduzione di personale o prepensionamenti, e riduzione degli apparati. L’altra faccia della medaglia è la vendita di quote dei gioielli di famiglia. Quella più corposa, la Compagnia Impresa Lavoratori Portuali (Cilp), controllata al 100%, ha già ceduto il 30% di quote al suo socio terminalista, Luigi Negri, che adesso controlla con l’8l% il Terminal Darsena Toscana (TdT), uno dei migliori nel Mediterraneo con 500mila containers. Il “risanamento” prevede altre vendite di proprietà e partecipazioni, come nel caso del “Faldo”, un piazzale nella piana interna che movimenta 600 mila auto ed è il primo nel Mediterraneo.
È molto probabile che la Compagnia non riesca ad uscire con le proprie gambe da questo processo di ristrutturazione. Tra sacrifici, riduzioni di personale e vendite di gioielli, rimangono solo le mani per lavorare, e a quel punto non ci vorrà molto a finire in liquidazione. La crisi accelera l’urgenza della scelta: o compagnia proprietaria o compagnia proletaria. La prima strada porta diritta al disastro per i lavoratori. Al pieno rientro in una giungla in cui lavora chi si vende al prezzo più basso.
Corrispondenza dal porto