Due mesi di vacanze (e una terapia d’urto)

Meno male che è durata poco – si potrebbe dire. Per due mesi, gli stessi partiti che insieme hanno votato la riforma delle pensioni, la distruzione dell’art. 18, il pareggio costituzionale di Bilancio che affossa lo stato sociale, si sono sbizzarriti a raccontarci quanto sarebbero stati bravi a fare tutt’altro. Hanno lanciato l’esca di un lieto fine per tutti i gusti. Da una parte è stata - con qualche variante - la solita stanca commedia elettorale; dall’altra una specie di tregua dalla realtà dei fatti.


Forse in modo ancora più evidente rispetto alle precedenti campagne elettorali, l’ultima si è distinta per inconsistenza di argomenti e per un sostanziale distacco dalla effettiva posta in gioco; dichiararsi contro la corruzione e i costi della “casta” politica, anche se evidentemente rivoltanti, è un obiettivo condivisibile, ma può cambiare gli equilibri parlamentari, non quelli sociali. E focalizza l’attenzione solo su uno dei sintomi di degenerazione del sistema, non certo l’unico e nemmeno il principale. Dopo un anno e mezzo di attacchi – molto violenti e molto concreti - alle condizioni di tutta la classe operaia, realizzati con spregiudicatezza e agitando lo spauracchio della crisi, tutti i partiti sono arrivati alla conclusione che in campagna elettorale era meglio parlare d’altro. I prossimi tagli alla spesa pubblica, le prossime manovre, le prossime strette sui salari e sulle condizioni di lavoro sono state rimandate al dopo elezioni: nel frattempo, due mesi di chiacchiere e di promesse non si negano a nessuno.

Al di là dei vinti e dei vincitori, ammesso che le nuove comparse del balletto parlamentare possano vivacizzare l’ambiente, ci saranno programmi impossibili da ignorare, perché nel frattempo la crisi non si è fermata, e gli stessi “mercati” che dettavano prima le loro condizioni, continueranno a farlo anche dopo le elezioni, con buona pace di chi è convinto di avere realizzato un miracolo democratico. Un assaggio di quello che ci aspetta, anche senza dare indicazione di voto, lo aveva reso noto Confindustria alla fine di gennaio, e lo ha ribadito per bocca del suo Presidente, Giorgio Squinzi, subito dopo il voto. Alla domanda sulle sue preferenze tra governissimo o governo di minoranza, Squinzi ha risposto: “Io non esprimo giudizi di questo tipo.[…] L’economia reale non può aspettare i sofismi della politica”. L’organizzazione della grande borghesia in Italia aveva già dato prima del voto una propria particolare interpretazione di quello che intende per “riforma fiscale”. L’abolizione dell’IMU l’aveva lasciata all’imbonitore più ruffiano del gruppo, in compenso si era orientata per quella che il Corriere della Sera aveva definito a suo tempo una “terapia d’urto”, ovvero una serie di richieste, esplicitamente rivolte al vincitore di turno nelle elezioni, destinate a rimettere in circolo – secondo Confindustria – 316 miliardi di euro in cinque anni.

Allo scopo, oltre allo sblocco dei crediti che le aziende vantano nei confronti della pubblica amministrazione, alla consueta richiesta di investimenti in infrastrutture e ricerca, e a un piano per ulteriori dismissioni e privatizzazioni, la ricetta prevede un altro corposo regalo alle imprese, con un taglio del costo del lavoro dell’8% nel settore manifatturiero, cancellando per tutti i settori il costo dell’IRAP sulle retribuzioni; un aumento dell’orario di lavoro di 40 ore all’anno, pagate di più perché su di esse non si dovrebbero pagare né tasse né contributi; la riduzione dell’Irpef per i redditi più bassi. Il finanziamento del pacchetto andrebbe cercato, ovviamente, nell’abbattimento della spesa pubblica, magari con un taglio alla “burocrazia”.

Da questo punto di vista, a destra si era già data una risposta sul finire della campagna elettorale, quando Berlusconi aveva auspicato un taglio degli stipendi dei dipendenti pubblici di un buon 3%, operazione che da sola, a suo dire, farebbe risparmiare 5 miliardi l’anno, più della cancellazione dell’IMU sulla prima casa. Una risposta nel suo genere coerente, che chiama in causa ancora una volta gli stipendi dei lavoratori, privati o pubblici che siano, e probabilmente gradita anche al neo-vincitore Grillo, che ha dichiarato insostenibile il costo dei dipendenti pubblici, privilegiati – secondo lui – che non avrebbero risentito della crisi.

Qualche dotto economista ha già ricordato che la riduzione dell’Irpef per i bassi redditi è più il fiocchetto sul pacco che altro, dato che trattasi di misura palesemente irrealizzabile (e quando mai un economista “serio” potrebbe considerarla realizzabile?): va considerato che l’abbattimento anche di un solo punto sulla tassazione Irpef dei redditi fino a 15.000 euro frutterebbe non più di 150 euro annui a testa, e costerebbe troppo perché riguarderebbe milioni di persone.

Ma togliere l’Irap sulle retribuzioni ne diminuisce il gettito di due terzi, e l’Irap finanzia la sanità pubblica; 40 ore l’anno di lavoro in più sono in pratica 40 ore di straordinari obbligatori e pagati molto meno, praticamente una settimana di lavoro nero, però legalizzato e alla luce del sole, un bonus che le imprese apprezzerebbero molto. Sapendo anche benissimo come sarebbero ben accetti quei quattro soldi in più che ne verrebbero in tasca subito ai lavoratori, anche senza contributi per la pensione.

Il fatto è che gli stipendi in Italia sono ancora in calo, come ha confermato una volta di più l’indagine tratta dalla banca dati della società specializzata OD&M, pubblicata da La Stampa il 4 febbraio scorso: “I redditi sono tornati ai livelli di 27 anni fa, i consumi si sono ridotti, il potere d’acquisto è sceso, gli stipendi non sono mai stati così bassi dal 1983. Il verdetto non è figlio di una percezione psicologica, ma proviene dal confronto tra stipendi e misuratori della corsa dei prezzi.”

Il fatto è che Confindustria sa bene quello che vuole, e ha anche le idee piuttosto chiare su come ottenerlo. A oggi, non sembra che la classe operaia abbia idee altrettanto chiare su come rovesciare il banco.