Due anni di attesa, zero risposte

Piombino. Aferpi, la crisi dell’acciaio


A due anni dall’accordo di programma, che avrebbe dovuto restituire un futuro alle acciaierie di Piombino e soprattutto ai lavoratori della fabbrica e dell’indotto, non resta che mettere in fila gli scarsi fatti e le molte illusioni che hanno consentito soltanto di rimandare il momento della presa d’atto: gli ultimi due mesi, che hanno visto due scioperi della siderurgia comprensoriali e uno provinciale, hanno costretto se non altro alla consapevolezza che contare solo sulle autorità o sul Governo, o magari sui colonnelli locali del PD, non dà alcuna garanzia. Durante lo sciopero del 16 febbraio, lo scoraggiamento e la rabbia hanno portato molti lavoratori a fischiare anche il Sindaco di Piombino.

Le manifestazioni in occasione degli scioperi, soprattutto quello del 2 febbraio e lo sciopero provinciale del 24 marzo – al quale sono intervenuti tutti e tre i segretari nazionali delle federazioni metalmeccaniche Cgil Cisl Uil - sono state partecipate, anche se si sentiva con evidenza drammatica il sentimento di sfiducia e in generale di smarrimento di fronte alle consuete frasi enunciate dal palco. Lo stesso segretario della Fiom Landini ha tirato le conclusioni il 24 marzo, dichiarando: “Se all'incontro di lunedì prossimo 27 marzo, al Ministero dello Sviluppo economico, non verranno date risposte concrete, porteremo la vertenza Piombino davanti a palazzo Chigi e chiederemo un incontro al presidente del Consiglio Gentiloni”. Bastasse…

Due anni sono pochi e sono tanti, soprattutto quando si sopravvive a forza di contratti di solidarietà e cassa integrazione; sono tanti perché assomigliano ad anni luce, se si confronta la percezione attuale con quella che aveva incoronato all’epoca Issad Rebrab “Personaggio dell’anno” in un periodico locale. L’imprenditore di Algeri – poco profeta in patria, dati i suoi notevoli problemi con il Governo algerino - veniva rappresentato come il futuro di Piombino, risorto dalle sue ceneri, ma senza fumi, con impianti ecologici e lavoro (magari!) per tutti. Un piano da un miliardo di euro che prevedeva il rilancio dello stabilimento con due forni elettrici, bonifiche nella ex area a caldo, diversificazione della produzione con avvio del settore agroalimentare, etc. etc. Di fatto, nell’accordo del 30 giugno 2015, firmato dalle RSU di tutte e tre le Organizzazioni sindacali confederali, Rebrab si impegnava a proseguire le attività imprenditoriali per almeno due anni e a mantenere per lo stesso periodo i livelli occupazionali; più o meno è successo, anche se fra cassa integrazione, contratti di solidarietà e pochissime giornate di lavoro effettivo al mese. Alla fine di giugno però gli impegni presi saranno carta straccia, e a due anni dalla firma dell’accordo nulla di quanto era stato promesso è stato realizzato, a parte la virtuale conservazione dei posti di lavoro.

Ora che l’attività produttiva è quasi completamente bloccata, il pericolo appare sempre più evidente, e le reazioni di questi ultimi due mesi sono un risveglio piuttosto tardivo. A questo punto anche due treni di laminazione sono fermi e il treno rotaie marcia a volumi ridotti; nel frattempo la scarsa affidabilità delle forniture fa diminuire le commesse. In questi due anni, non solo sono stati ben lontani gli investimenti, ma si sono avute anche enormi difficoltà per portare avanti la produzione ordinaria, visto che spesso sono mancati i finanziamenti perfino per l’acquisto della materia prima. E dato che le illusioni volgono al termine, rimane la realtà di un imprenditore che aveva bisogno di un porto e di supporti logistici, che li ha ottenuti, ed è rimasto a osservare quello che succedeva, quasi sempre rimandando o evitando i confronti con gli interlocutori ufficiali, Ministri o altre autorità che fossero.

Che succederà a fine giugno? Il Sindaco Giuliani sostiene che non rinnoverà a Rebrab la concessione della banchina portuale; ad Aferpi il Ministero dello Sviluppo Economico potrebbe revocare il contratto di vendita per i mancati investimenti, e commissariare nuovamente lo stabilimento in attesa di una nuova gara per un altro acquirente; i contratti di solidarietà potrebbero anche continuare - in un modo o nell’altro - fino al 2019; oppure tutto potrebbe restare in mano alla stessa proprietà, magari con l’arrivo di qualche nuovo partner – tanto per dare un po’ di fumo negli occhi - e a questo punto, liberi da ulteriori obblighi riguardanti gli occupati, potrebbe essere pronto un piano di ristrutturazione per avviare cassa integrazione e/o mobilità agli esuberi.

I lavoratori non possono stare ad aspettare gli eventi. Il loro primo nemico è la tentazione di lasciarsi abbattere dall’insicurezza e dal disorientamento, quindi la decisione di scioperare e di lottare è la strada giusta. Non bisogna fermarsi però, non bisogna farsi convincere dalle semplici promesse.