Assemblea annuale di Confindustria esibita alla mega-vetrina dell’Expo, ma preceduta da un’assemblea “privata”, che ha fatto il conto degli incassi e si è spinta anche oltre. Dato che ormai è “la volta buona”, i margini si possono allargare a dismisura. L’appetito, si sa, vien mangiando: e il capitalismo è per sua natura insaziabile.
Perfino la stampa borghese, usa a conferire ovvia priorità e massimo rispetto a ogni comando di Confidustria, stavolta ha avuto una sfumatura di leggero stupore nell’apprendere quanto si andava discutendo all’Assemblea privata di Confindustria, dedicata ai soli soci e convocata in vista della parata annuale, quest’anno trasferita a Milano in occasione dell’Expo. “Non si ferma la lista delle richieste della Confindustria al governo Renzi. Dopo aver incassato l’abolizione dell’articolo 18, il presidente degli industriali punta ad avere nuovi contratti”, commentava La Repubblica del 7 maggio scorso.
E infatti. Dopo il colpo di mano (riuscito) ai danni dello Statuto dei lavoratori - l’ennesimo affondo del resto - perché mai gli industriali dovrebbero fermarsi? Adesso tocca ai contratti di lavoro: “Bisogna rivedere il modello contrattuale per assicurare la certezza dei costi, la non sovrapponibilità dei livelli di contrattazione e legare strettamente retribuzioni e produttività. […] Tocca a noi innovale l’organizzazione del lavoro interna alle nostre imprese. Per questo servono anche regole radicalmente nuove della contrattazione collettiva”. (Rep., 7.05).
La nuova mossa punta non solo a demolire quello che è rimasto del contratto nazionale, ma a legare in modo ancora più stringente produttività e salari, in altri termini arbitrio padronale e salari. Ancora di più considerando che la contrattazione aziendale, quella cosiddetta “di prossimità”, è riservata a una minoranza di aziende. Per le altre, soprattutto le piccole e medie imprese, che cosa resterebbe? Forse la contrattazione territoriale, forse anche no.
D’altra parte, non è questo il problema di Confindustria, caso mai è il problema dei lavoratori, su cui si sono scaricati, ormai da anni, non solo i costi acuti della crisi, ma anche quelli dei decenni precedenti, nei quali la ricchezza sociale prodotta ha subito un travaso inesorabile dalla quota di redditi da salario ai profitti e alle rendite, finanziarie e non. Malgrado ciò, non esistono limiti agli appetiti delle imprese. E dopo il prologo, nell’assemblea “ufficiale” di fine maggio a Milano, Confindustria ha ribadito il concetto e ne ha definito più precisamente i termini, allargandosi anche a definire quale dovrebbe essere la sua controparte, con varie considerazioni sulla opportunità del sindacato unico, e perfino andando fuori del seminato. In base alle proprie convenienze, le imprese considerano più o meno utile il sindacato, più o meno utile la contrattazione, più o meno utili le leggi sul lavoro.
Ultimamente Confindustria ha espulso la Trelleborg, perché in sede di contrattazione aziendale ha riconosciuto le regole dell’art. 18 per i neo-assunti, a prescindere dalla legge. Questo è possibile in base alle modifiche all’art.8, che consente ai cosiddetti “contratti di prossimità” le deroghe ai contratti di lavoro, e perfino alle leggi. La modifica della norma risale al 2011 e fu tra l’altro energicamente sponsorizzata proprio dalle imprese, e si capisce perché. Guarda caso, Confindustria pensava solo al lauto aspetto delle deroghe in peggio nelle condizioni dei lavoratori, non a un’eventuale deroga in meglio – ammesso che lo sia quella di Trelleborg, e che i lavoratori non abbiano dovuto pagarla cara con altre concessioni.
In ogni caso, mentre Squinzi con una mano predica ai sindacati “il diritto di essere noi stessi a regolare i nostri rapporti piuttosto che qualcuno proceda per legge”, con l’altra si rivolge al Governo, riconoscendo di non aver niente di cui lamentarsi, ma chiedendo ancora “legami più forti e stringenti salari – produttività” e lamentando come il Governo stesso, per quanto amico, ogni tanto eserciti una “manina anti-impresa”, per esempio sulla reintroduzione del falso in Bilancio, della Tasi sugli immobili invenduti, o sui reati ambientali, tutti provvedimenti “tanto assurdi che faccio fatica a raccontarli all’estero”. (Repubblica, 28.5.15)
Confindustria ambisce a spadroneggiare su tutta la linea, e lo fa dal palcoscenico ideale, quello di Expo 2015, esprimendo e rappresentando, in definitiva, la grande fiera mondiale dell’ipocrisia capitalista.
Non si potrebbe esprimere meglio l’opulenza e il suo esatto contrario, la miseria. Così, mentre secondo l’INPS i poveri in Italia sono aumentati di un terzo, passando da 11 a 15 milioni; mentre nel nostro Paese una famiglia su due non sente (ovviamente) la ripresa, e sei famiglie su dieci temono che un familiare possa perdere il lavoro; mentre l’1% della popolazione italiana detiene ormai il 14,3% della ricchezza nazionale netta (era il 10% solo pochi anni fa), la cassa di risonanza dei media è tutta per la minoranza privilegiata che vuole semplicemente conservare e aumentare i propri privilegi. La stessa immagine che riproduce Expo, quando maschera sotto padiglioni spettacolari la risibile ambizione di NUTRIRE IL MONDO, mentre assiste nella massima indifferenza, anzi con ostilità, a una moltitudine di migranti costretti a bivaccare, in condizioni indegne perfino degli animali, proprio davanti alla stazione di Milano, dove sbarcano i visitatori.
Nutrire il mondo, va bene, ma non chi ne ha bisogno. Nutrire il mondo, va bene… ma SOLO IL MONDO PAGANTE.