La deriva Cgil era già abbastanza chiara dall’ultima tornata congressuale. Con l’accordo Interconfederale Cgil Cisl Uil e Confindustria del 28 giugno, la direzione Camusso imprime una svolta di carattere definitivo a quello che era stato l’approccio Cgil degli ultimi anni: se c’era chi vedeva in Cgil l’ultimo baluardo “di sinistra” a difesa della classe lavoratrice, può mettersi l’animo in pace. Si trattava di un’aspettativa più o meno illusoria, come era abbastanza facile immaginare.
Dall’accordo del gennaio 2009 sulla modifica del modello contrattuale, firmato da Cisl e Uil ma non dalla Cgil, sono passati più di due anni e una crisi economica devastante; il modello Cgil, dopo un accenno di resistenza, ha ceduto senza troppe remore alle esigenze che Emma Marcegaglia, segretaria generale di Confindustria, ha sottolineato in un’intervista al Corriere della Sera subito dopo la nuova intesa del 28 giugno scorso, riferendosi ai successivi commenti di Sergio Marchionne sull’argomento: “Marchionne ha sollevato con vigore il problema che ogni imprenditore vive: la crudezza della globalizzazione impone cambiamenti veloci e profondi in tutti gli ambiti”. Ma: “Il primo vero passo di modernizzazione delle relazioni sindacali lo abbiamo fatto noi, la Cisl e la Uil, con l’accordo interconfederale del gennaio 2009: i concetti dell’adattabilità e dell’esigibilità dei contratti sono stati introdotti lì.”
Appunto. Questo accordo non è che la fase successiva del precedente, e in qualche modo lo integra e lo legittima. Con questo accordo, i concetti di adattabilità ed esigibilità dei contratti sono ratificati e avvallati da parte sindacale, con la conseguente e ovvia premessa che le uniche esigenze da salvaguardare siano quelle di parte confindustriale, o meglio quelle delle singole aziende.
Il concetto cardine dell’accordo, infatti, ruota intorno alla riduzione del contratto nazionale a semplice quadro delle condizioni, abbastanza vago e sottoscrivibile dalle organizzazioni sindacali che rappresentino più del 5% dei lavoratori, calcolo ottenuto considerando deleghe sindacali e voti nelle elezioni delle RSU. Ma il piatto forte dell’intesa non sta lì, sta nella contrattazione aziendale, dove si potranno “definire specifiche intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro”. Diciamo che questo capolavoro linguistico, in sindacalese puro, ha evitato alla Cgil la responsabilità di firmare un documento con sopra scritto l’indigesto termine: “deroghe”, ma al di là degli equilibrismi verbali tali sono, deroghe, e comunque le si voglia leggere, da qui in avanti sarà possibile avere condizioni aziendali peggiorative del contratto nazionale, che prima non erano possibili. E questo resta il punto. Con l’aggravante che ogni contratto aziendale sottoscritto dalla maggioranza delle RSU elette è valido senza successiva approvazione dei lavoratori, e non può essere impugnato dalla minoranza, perché “le clausole di tregua sindacale finalizzate a garantire l’esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva” sono vincolanti per tutte le associazioni sindacali firmatarie dell’accordo del 28 giugno.
Per dire: non sarebbe più possibile per la FIOM impugnare legittimamente un accordo come quello di Pomigliano o di Mirafiori dopo la firma della RSU, o proclamare comunque uno sciopero, perché la Cgil, avendo firmato, garantisce “l’esigibilità” anche per conto delle categorie. Poi magari l’obbligo a non scioperare sussiste per le associazioni sindacali, e non per i singoli lavoratori (altrimenti – per ora – sarebbe incostituzionale), ma o i lavoratori si riuniscono in associazioni diverse da quelle che hanno firmato quest’accordo, o lo sciopero di un lavoratore singolo non fa molta paura.
Va da sé che, per la parte di salario definita nei contratti aziendali, cioè quella che “collega aumenti di retribuzione al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia ed altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività nonché ai risultati legati all’andamento economico delle imprese”, nell’accordo si seguono pari pari i binari definiti dalle esigenze di Confindustria: si richiedono al Governo sgravi fiscali e contributi. Ovviamente solo sul salario legato alla produttività, quello che interessa alle imprese e che non riguarda tutti i lavoratori.
La classe padronale cerca – e trova – gli strumenti per ridurre progressivamente le tutele che i lavoratori erano riusciti ad ottenere con anni di lotte, in periodi di vacche relativamente grasse per il capitalismo. Oggi che la crisi, data per risolta da tanti, si avvita in una spirale che sembra travolgere qualsiasi previsione, per assicurare le ricche rendite di banche e speculatori finanziari, per mantenere e aumentare i profitti delle imprese, serve intensificare lo sfruttamento, si deve “modernizzare”, ovvero creare gli strumenti che consentano di superare tutele storiche. Beninteso, non basta mai: e infatti Marchionne si è sfilato dall’accordo del 28 giugno chiedendo “ulteriori passi che ci consentano di acquisire quelle garanzie di esigibilità necessarie per la gestione degli accordi raggiunti per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco”, altrimenti mollerà Confindustria. Detto fatto, l’art. 8 - inserito a tradimento nella seconda manovra economica dell’estate, quello che di fatto supera l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, prevede appunto che, se i sindacati firmatari di un accordo sono maggioritari, l’accordo ha validità per tutti e non è impugnabile, e guarda caso la norma è retroattiva.
Quindi la contrattazione aziendale può derogare senza limiti ai contratti collettivi, ma anche a una legge dello Stato. In pratica, un sindacato a cui non sei iscritto e che nemmeno hai votato può rinunciare per tuo conto a una legge che ti tutela, e tu non puoi nemmeno impugnare questi accordi. L’assenza di regole imposte e la libertà totale di sfruttamento per i padroni sarebbero l’ideale; ma sono capaci di rimediare con un’evaporazione delle regole, sostenuta e fatta digerire da sedicenti rappresentanti dei lavoratori: e la firma Cgil sotto l’accordo del 28 giugno ora appare ora più che mai una resa, uno dei tanti strumenti regalati ai padroni da ritorcere contro i lavoratori, e per giunta ormai superato dai fatti.
Non sarà la conquista di uno strapuntino per la Cgil ai tavoli di contrattazione a risollevare la condizione dei lavoratori. Soltanto la lotta, a partire da ogni fabbrica, da ogni posto di lavoro, ha una possibilità di riuscita. Solo la lotta, capace di generalizzarsi ed estendersi a tutti i posti di lavoro, può opporsi a questo come a tutti gli altri attacchi che verranno, che la Cgil ritiri o meno la firma dall’accordo del 28 giugno. Un primo esempio di quello che sarebbe possibile fare lo abbiamo avuto con gli scioperi e le manifestazioni del 6 settembre, dovunque numerose e partecipate, ma oggi è un’urgenza vitale evitare che non si tratti del solito sciopero rituale (peraltro proclamato dalla CGIL, anche se nella stessa giornata anche da alcuni sindacati di base) e cominciare a fare davvero uso di quest’arma come di uno strumento di lotta.