Contro una politica che è al servizio del gran capitale

Tra gli ultimi giorni di primavera e la piena estate il disgusto per il mondo politico ha avuto abbondanti occasioni per irrobustirsi e diffondersi ulteriormente. Il governo continuava a parlare di incoraggianti segnali per l’economia, per niente avvertiti dalle famiglie dei ceti popolari, mentre nel mondo litigioso dei partiti parlamentari si produceva una specie di sospensione, un momento magico di armonia e di accordo. Finalmente si era trovata una soluzione, condivisa dai maggiori partiti di governo e di opposizione, sulla legge elettorale! Si sarebbe fatto alla tedesca. Cioè con un sistema prevalentemente proporzionale con soglia di sbarramento al 5%. La germanofilia aveva preso toni ridicoli, fino al punto di spingersi a sostenere la necessità non solo di votare come i tedeschi ma anche quando i tedeschi. Così, in quattro e quattr’otto, approvata la legge, si sarebbe andati al voto per il rinnovo del Parlamento il 24 settembre. Tutto è poi crollato nella stessa aula di Montecitorio in una giornata di risse nella quale ogni partito ha addossato la colpa del “tradimento” all’altro. Pochi giorni dopo, con le elezioni comunali, l’intero sistema dei partiti riceveva il giusto compenso: la partecipazione al voto, che nel primo turno del 2012 era stata del 68,8%, crollava al 60,6%. Nei successivi ballottaggi il calo era rispettivamente 54,7% contro 45,9%.

L’arena della politica ufficiale, con tutti i suoi riti, le sue menzogne, i suoi trucchi e le sue battaglie falsamente condotte in nome del “popolo”, ha talmente disgustato questo stesso “popolo”, che si avvia a divenire il campo da gioco di una minoranza della società.L’astensionismo riguarda una parte crescente della classe lavoratrice. Una politica nuova, cioè uno strumento capace di imprimere veramente alla società i mutamenti radicali che sostanziano il progresso comune e, nello stesso tempo, ne preparano ulteriori sviluppi, potrà venire soltanto da questa classe. Da un confuso disgusto verso “la politica” al riconoscimento dello Stato, delle sue istituzioni e degli attuali partiti parlamentari come organi di interessi di classe opposti a quelli dei lavoratori, questi sono gli stadi che deve attraversare la coscienza politica della classe lavoratrice. Questa è la maturazione necessaria per radunare le proprie forze in un partito che basandosi sugli interessi collettivi dei lavoratori salariati, potrà divenire il campione di tutti quelli che l’economia capitalistica schiaccia, opprime, riduce ai margini della società.

La vicenda del “salvataggio” delle banche venete, Popolare di Vicenza e Veneto Banca, ha chiarito il grado di subalternità agli interessi del gran capitale che un governo può raggiungere. Sotto dettatura di Intesa San Paolo, la prima banca del Paese, il governo ha sfornato un decreto legge che predispone il quadro giuridico di un’operazione vergognosa. Intesa San Paolo acquisisce la parte buona delle due banche semi-fallite. Costo: un euro. Acquisisce i loro beni immobiliari con un regime speciale di franchigia fiscale, e si fa versare quasi 7 miliardi dallo Stato. Il tutto per… salvare il sistema bancario, la “nostra credibilità” sui mercati, e balle del genere. Ricordiamo che l’insieme dei salvataggi bancari è già costato alle casse pubbliche la cifretta di 31 miliardi. La conversione del decreto in legge ordinaria, quindi i passaggi del dibattito parlamentare, sono stati posti fin da subito sotto la spada di Damocle della “decadenza” dell’accordo in caso di cambiamenti anche di una sola virgola di quanto pattuito in sede riservata tra commissari delle banche in fallimento, Banca Intesa e ministro dell’economia.

Trovati letteralmente dalla sera alla mattina i miliardi per le banche, quelli per la tanto decantata lotta alla povertà si lesinano. I 4,6 milioni di “poveri assoluti” registrati dalle statistiche italiane verranno “aiutati” da un sistema macchinoso che dovrebbe condurre al “reddito di inclusione”. Solo che i fondi sono insufficienti e copriranno meno di un terzo di quelli che ne avrebbero bisogno. Ai “fortunati”, lo Stato, bontà sua, accorderà un’indennità che, nella migliore delle ipotesi, sarà di 450 euro per tutto il nucleo familiare. Per meritarsi questi quattro soldi, i poveri dovranno dimostrare di voler rientrare nel mercato del lavoro, seguendo corsi di formazione o altre diavolerie non ancora ben chiarite. Perché accordare semplicemente un aiuto economico a famiglie in estrema povertà incoraggerebbe, Dio non voglia, un ozio moralmente deprecabile. Invece regalare ai banchieri decine di miliardi delle casse statali, in grandissima parte pagate dalle tasse di lavoratori e pensionati, porta una ventata di dinamismo a tutta l’economia. Di questo ci vorrebbero convincere i governanti.