Chi ha i piedi scalzi, chi ha le tasche piene

A due anni soltanto dall'ultimo caso di sfruttamento e di lavoro nero in agricoltura scoperto in Val di Cornia, i carabinieri del Comando Provinciale di Livorno hanno arrestato 10 pakistani per reati collegati al caporalato. Ancora una volta è chiaro che l'episodio di due anni fa non era né un'eccezione, né un caso isolato, e che nei campi della civile Toscana è così che si lavora

 

I ragazzi senegalesi pesantemente sfruttati nei campi della Val di Cornia, un caso giunto alle cronache due anni fa, lavoravano per tre euro l'ora, senza interruzione anche per quindici ore al giorno. Il caso attuale è diverso nelle modalità, non nella sostanza, anzi per certi versi perfino più grave. I personaggi indagati, pakistani con ditte individuali fornitrici di lavori e servizi per il settore agricolo, erano sei e si servivano di altri quattro connazionali, sguinzagliati in giro per reclutare gente disposta a lavorare a qualsiasi condizione. Li hanno trovati nel Centro di accoglienza "Le Caravelle” di Riotorto, nel comune di Piombino, un ex villaggio turistico ora adibito a ospitare extracomunitari. Erano 67 migranti provenienti da Pakistan e Bangladesh, e avevano un bisogno disperato di guadagnare qualcosa per sé e per le proprie famiglie. In giro per la Toscana, nelle province di Livorno, Grosseto e perfino Siena, c'erano invece aziende agricole bisognose di manodopera (a buon mercato, magari) per raccogliere olive e ortaggi vari, zappare le vigne e compiere gli altri pesanti lavori agricoli che non tutti sono disposti a fare: soprattutto, non senza regolare contratto di assunzione, senza rispetto delle normative sull'orario di lavoro, piegati sui campi per oltre 10 ore al giorno, senza pause, con retribuzioni irrisorie e, in un caso accertato, addirittura per una cifra pari a 0,97 euro l'ora.

A nessuno sarà sembrato strano che 67 persone venissero prelevate con furgoni e allontanate dal Cas a giornate intere, ma alla fine il via vai di camioncini e furgoni è stato notato, chissà se sulla base dell'osservazione o sulla base di una denuncia, e l'inchiesta è partita. Va da sé che di norme di sicurezza e igiene nelle condizioni di lavoro non c'era nemmeno da parlarne, tanto che l'operazione d'indagine dei carabinieri della compagnia di Piombino e del Nucleo carabinieri Ispettorato del Lavoro di Livorno è stata battezzata "PIEDI SCALZI", proprio partendo dall'intercettazione di un colloquio telefonico. Non ci sono notizie sull'identità dei due interlocutori, ma sul discorso sì: uno si preoccupa per la difficoltà di raccogliere ortaggi nei campi dopo forti piogge, e l’altro lo tranquillizza: "I nostri li mandiamo a piedi scalzi, così non c’è il problema che rimangano impantanati con le scarpe".

Ora, la domanda che sorge spontanea, e che a quanto pare nessuno si pone, è la seguente: ma le aziende agricole che usufruivano del lavoro di queste persone, e che si rivolgevano a intermediari siffatti, non si sono mai accorte dei personaggi con cui avevano a che fare? Non hanno mai fatto un giretto nei propri campi per verificare le condizioni di lavoro, o perfino per notare se i malcapitati che affondavano nel fango avevano le scarpe - non le scarpe di sicurezza, per carità sarebbe troppo - ma almeno se non lavoravano scalzi? E quanto li retribuivano, questi intermediari? Le condizioni economiche riservate ai braccianti, le conoscevano, o no? Ma davvero gli unici responsabili sono i sei caporali pakistani, e i quattro loro collaboratori? E quanto si sono messi in tasca, questi immacolati imprenditori agricoli nemmeno toccati dall'indagine, ai quali nessuna notizia di stampa si riferisce, con il lavoro dei 67 migranti sfruttati?

Un comunicato della FLAI, la categoria sindacale Cgil che si occupa del lavoro agricolo, commenta la faccenda invocando l'applicazione della normativa in materia di contrasto al caporalato prevista dalla legge 199/2016: "Serve un salto di qualità sul piano del contrasto preventivo, le sezioni territoriali del lavoro agricolo di qualità debbono divenire appieno un reale strumento di contrasto e prevenzione al caporalato [...]Queste sezioni dovrebbero garantire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, fare da collocamento pubblico, garantire le politiche di accoglienza, offrire il trasporto dei braccianti".

Queste "sezioni territoriali" dovrebbero costituire la "Rete del lavoro agricolo di qualità", e dovrebbero articolarsi partendo dalla collaborazione e dal coordinamento di istituzioni locali, di centri per l'impiego, di sportelli per l'immigrazione e dei cosiddetti enti bilaterali, un fumoso istituto che, nelle intenzioni e fra le altre funzioni, "promuove le relazioni sindacali e l'applicazione della contrattazione collettiva". A questa Rete del lavoro agricolo di qualità possono aderire, inviando domanda sul sito INPS, le imprese agricole "virtuose" che non hanno avuto condanne penali per violazioni della normativa in materia di lavoro e legislazione sociale, né sanzioni amministrative negli ultimi tre anni per violazioni nelle stesse materie, che hanno pagato imposte e tasse e sono in regola con il versamento dei contributi previdenziali e dei premi assicurativi. Sul sito INPS, al 23.9.21, fra le aziende ammesse per la provincia di Livorno, fanno bella mostra di sé proprio le due aziende che nel 2022 furono individuate per lo sfruttamento dei lavoratori senegalesi e condannate a pagare per truffe alla Comunità europea, evasione fiscale e quant'altro un totale di 5.800.000 euro di sanzioni amministrative. Se questo è un esempio della Rete del lavoro agricolo di qualità, andiamo bene...

Aemme