Che cosa non aspettarsi dal governo Letta

Negli stessi giorni in cui si svolgevano gli ultimi atti della tragicommedia parlamentare iniziata con le elezioni politiche di febbraio, l'Istat ci informava che il numero dei disoccupati aveva raggiunto il record storico dal 1977.

Come tutti sanno, il governo Letta, il cui insediamento è stato “guastato” dai colpi di una Beretta calibro 7,65, sparati da uno dei tanti a cui la crisi ha tolto ogni speranza, è stato il coronamento di una serie di scontri di palazzo e di intrighi che hanno sostanzialmente portato alla disgregazione del PD, alla defenestrazione del suo segretario, Bersani, alla rielezione alla presidenza della repubblica del quasi novantenne Napolitano, all'intesa, almeno momentanea, fra gli “amici del Giaguaro” e quelli che, fino a un minuto prima, il Giaguaro dovevano smacchiarlo. L'affidamento di qualche ministero a qualche personaggio un po' più presentabile non cambia la sostanza: siamo di fronte al governo di “larghe intese” sul quale ha insistito fin dall'inizio Berlusconi e sul quale sembra ora riporre le proprie speranze buona parte della grande borghesia a cominciare dalla Confindustria.

Lo staff del nuovo governo si è subito preoccupato di dare un'impressione di dinamismo e risolutezza. Si sono tirati in ballo i famosi quattro o cinque punti che riassumerebbero le cose più urgenti da fare e sui quali, lo scrivono i maggiori quotidiani, esiste il più ampio consenso sia nel Centrodestra che nel Centrosinistra.

Per chi vive la condizione di un salario o di una pensione da fame, per chi lavora occasionalmente, per un compenso di poche centinaia di euro, per chi non riesce nemmeno a trovare uno straccio di impiego, per quanto precario e sottopagato, in sostanza: per la maggior parte della popolazione, le cose più urgenti da fare sono quelle che stiamo ripetendo da mesi. Se il lavoro è poco, è chiaro che va spartito fra tutti. Le forme attraverso cui si possa realizzare questo obiettivo possono essere le più varie, ma è chiaro che, in presenza di un regime salariale che mette l'Italia in coda ai paesi europei, questa ripartizione non può essere condotta a detrimento dei redditi da lavoro. Anzi, se non si vuole che la condizione di miserabile sia, in prospettiva, la condizione tipica del lavoratore, occorre stabilire un salario minimo vitale al di sotto del quale non possa andare nessun salario, nessuna pensione, nessuna indennità di disoccupazione. Provvedimenti come questi non sono che la risposta più ragionevole al baratro di povertà che si trovano di fronte parti sempre più consistenti di popolazione. Ma è una risposta che impone dei costi. E impone di trovare i mezzi finanziari necessari là dove sono. É chiaro che questo comporta un conflitto fra classi sociali.

La sopravvivenza di milioni di persone o il mantenimento della loro vita in condizioni di civiltà non possono dipendere dalla “politica economica” di questo o di altri governi. Se non saranno gli stessi lavoratori a imporre le proprie esigenze vitali, inevitabilmente tutti i provvedimenti che verranno presentati come sostegno all'occupazione si tradurranno in regali per la classe imprenditoriale. Per quanto tutta la stampa e tutti i partiti politici, compreso quello di Grillo, sostengano il contrario, non stiamo tutti sulla stessa barca. Il padronato, almeno quello più grande, sta in terra ferma, la barca che fa acqua è quella dei lavoratori, dei pensionati, dei disoccupati.

Nessuna garanzia, nessun passo avanti sul terreno sociale saranno possibili senza che da parte dei lavoratori ci sia una chiara presa di coscienza dei propri interessi e dei propri obiettivi. Bisogna diradare la cortina fumogena dell'interesse nazionale e dare un nome e una collocazione precisa alle cose: da una parte gli interessi della parte più ricca e privilegiata della società, grandi imprenditori, banchieri, rentier, grandi burocrati di stato e manager, e dall'altra la massa della popolazione e, in primo luogo, i lavoratori salariati. Stare con gli uni e con gli altri è semplicemente impossibile.