Le elezioni politiche che si tennero il 6 aprile 1924 furono le ultime di un regime che ancora conservava le forme democratiche rappresentative. Arrivato al governo con la Marcia su Roma, due anni prima, il partito di Mussolini era ancora in minoranza in parlamento. La borghesia agraria e industriale che lo aveva appoggiato fino a quel momento non era ancora sicura se abbandonare completamente la finzione parlamentare. Senza dubbio, però, era sicura di voler premere l’acceleratore sullo sfruttamento della classe operaia. L’allora segretario della Confindustria, Gino Olivetti, scrisse nel 1929 che “gli anni che vanno dal 1923 al 1925 si possono descrivere come l’epoca del produttivismo. Brutta parola, per indicare la tendenza a spingere all’aumento la capacità produttiva del Paese. Periodo in cui il governo mirava a togliere di mezzo gli impacci e le bardature create dalla guerra, e restituiva alle forze individuali la possibilità di spiegare il massimo sforzo e di ottenere il massimo rendimento”. Ma, al di là di questa terminologia addomesticata, il padronato mirava, come annota lo storico Valerio Castronovo, ad ottenere “la massima agibilità nell’impiego della manodopera”. Per questo, “furono rimesse in discussione dal padronato industriale le più importanti conquiste sindacali del dopoguerra. Un po’ dovunque venne imposta una riduzione dei salari, una restrizione delle scale retributive e la reintroduzione delle nove ore di lavoro”.
Le squadre fasciste, scatenate in una grande offensiva fino dal 1921, servirono egregiamente agli obiettivi padronali, eliminando fisicamente molti dei dirigenti operai più in vista, bastonando e terrorizzando migliaia di militanti socialisti, comunisti e anarchici della classe operaia. Che si trattasse di organizzarsi in leghe di resistenza di braccianti, in Camere del lavoro o in sezioni e circoli politici, che si trattasse di lotta per i salari o per il socialismo, i lavoratori dovevano essere messi in silenzio e doveva essere impedito loro di ostacolare l’ingranaggio del profitto. Con l’istituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, nel gennaio 1923, il governo Mussolini legalizzò lo squadrismo fascista che divenne in questo modo una istituzione dello Stato.
La legge Acerbo
Intenzionato a esercitare il ruolo di Primo ministro - attribuitogli dal re dopo la farsesca Marcia su Roma del ‘22 - con il più ampio consenso parlamentare, dato che i deputati fascisti erano a quel momento soltanto 35, Mussolini prese la decisione di “fabbricarsi” la maggioranza che non aveva. Incaricò Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza e membro del partito fascista, di presentare il disegno di una nuova legge elettorale maggioritaria. Il 21 luglio del 1923 la Camera approvò e il nuovo sistema elettorale diventò definitivamente una legge dello Stato il 18 novembre.
Si trattava di una vera truffa, che consentiva a una singola lista risultata maggioritaria nel confronto con le altre, anche con solo il 25% dei voti, di accaparrarsi i due terzi dei seggi parlamentari. Il terzo restante si sarebbe distribuito col criterio proporzionale tra le altre liste. A parte i socialisti, i comunisti, i repubblicani di sinistra e i pochi “popolari” rimasti fedeli a Don Sturzo, nessun altro gruppo parlamentare si oppose seriamente a questo disegno di legge. Gli archivi parlamentari registrano che il governo Mussolini pose la questione di fiducia sulla legge Acerbo e la fiducia gli fu accordata con 303 sì contro 140 no e 7 astenuti. Tra quelli che votarono sì ci furono diversi liberali e cattolici che venti anni dopo saranno considerati campioni della nuova democrazia “nata dalla Resistenza”.
La legge Acerbo era stata confezionata su misura per consentire il trucchetto dei cosiddetti “Listoni”, cioè di liste elettorali che, per quanto i candidati fascisti ne rappresentassero la minoranza, erano in realtà completamente sotto il loro controllo. Il voto al “Listone” era il veicolo attraverso il quale i fascisti riuscirono a disporre di una docile maggioranza parlamentare.
Entrarono in queste liste uomini del vecchio Stato liberale, come Antonio Salandra, capolista in Puglia o Vittorio Emanuele Orlando, capolista in Sicilia o, ancora, Enrico De Nicola, capolista in Campania. (anche se, a onor del vero, si ravvide, ritirando la candidatura prima del voto, in seguito, sostiene lo storico Enzo Santarelli, all’attacco sferratogli a Napoli da Amadeo Bordiga nel corso della campagna elettorale).Vi entrarono anche, in gran numero, affaristi e industriali.
Le elezioni del 6 aprile
Ma, per quanto truffaldina, non era scontato che la riforma elettorale di Acerbo avrebbe assicurato a Mussolini la superiorità schiacciante di cui aveva bisogno. E, del resto, anche una vittoria ottenuta con l’espediente del “Listone”, a fronte di un troppo grande numero di voti socialisti, comunisti e popolari di Sturzo, sarebbe apparsa una mezza vittoria.
Quindi bisognava dare via libera, di nuovo, ai manganelli e ai brogli elettorali. Giacomo Matteotti, deputato socialista riformista, denunciò nel suo ultimo discorso, il 30 maggio 1924 il clima che aveva caratterizzato la campagna elettorale e ne chiese, per questo motivo, l’invalidazione del risultato. Probabilmente fu questo discorso che ne decretò la condanna a morte da parte di Mussolini, che la fece poi eseguire da un gruppo di sicari fascisti.
I resoconti stenografici della Camera dei deputati di allora ci danno un’idea del coraggio di Matteotti, costretto a intervenire mentre viene continuamente interrotto e insultato dai deputati fascisti e nazionalisti. Il deputato socialista sostiene che la Lista di maggioranza non ha ottenuto i suoi voti in elezioni libere “ed è dubitabile quindi se essa abbia ottenuto quel tanto di percentuale che è necessaria per conquistare, anche secondo la vostra legge, i due terzi dei posti che le sono stati attribuiti!”
L’intervento prosegue con un lungo elenco di violenze, di minacce e di prepotenze d’ogni tipo, subite dai candidati socialisti e delle altre liste antifasciste. Senza contare che nella maggior parte dei seggi elettorali la milizia fascista impedisce materialmente ai rappresentanti di lista dei partiti d’opposizione di presenziare allo scrutinio.
La vittoria fascista risulta così dall’effetto combinato della violenza e dei brogli elettorali, di una legge elettorale truffaldina e di un gioco di scatole cinesi all’interno delle quali si muove la minoranza fascista che – come per magia – risulterà maggioranza a Montecitorio.
La classe operaia, baluardo antifascista
L’ostilità della classe operaia nei confronti del fascismo è testimoniata dal voto delle grandi città del nord. Nonostante tutte le violenze e le intimidazioni, in alcune città del nord la classe operaia fece sentire, per quanto possibile, tutto il suo peso. In ogni caso, su scala nazionale, i partiti operai presero nel complesso più di un milione di voti. Era la testimonianza, dura a morire, di un proletariato che non si sentiva ancora sconfitto. I comunisti, che nei mesi precedenti furono colpiti da specifici provvedimenti repressivi che ne scompaginarono la struttura organizzativa e ne paralizzarono quasi completamente l’attività, con l’arresto del segretario Bordiga, dei membri del comitato centrale quasi al completo, di 72 segretari federali, di 41 segretari locali e di tutta la segreteria nazionale della federazione giovanile, cumulando in tutto 5000 arresti, ottennero comunque 268.191 voti, poche migliaia di meno di quelli presi nel 1921, nonostante non avessero potuto presentarsi in tutte le circoscrizioni.
I mesi che seguirono videro il rapimento di Matteotti e, in seguito a questo, lo scoppio di una crisi politica che sembrò aprire uno spiraglio all’azione del proletariato rivoluzionario. Ma, anche per l’inettitudine delle direzioni socialiste e sindacali, Mussolini riprese rapidamente il controllo della situazione.
In un prossimo articolo cercheremo di analizzare questa ultima fase che precedette la totale soppressione delle libertà politiche in Italia, con la messa fuori legge di tutte le organizzazioni della classe operaia.
RC