Sui cieli della Libia si bombarda, come cent’anni fa quando l’imperialismo "straccione" italiano inaugurò il bombardamento aereo come nuovo ed efficace strumento di morte.
I 150 anni dall’unità d’Italia coincidono con un anniversario che passerà in sordina: il centenario della conquista col ferro e col fuoco della Libia da parte del neonato imperialismo italiano.
Nel 1911 con l’impresa coloniale di Libia l’Italia entrò a pieno titolo nel club delle potenze imperialiste. Lo stato nazionale italiano era stato proclamato solo 50 anni prima e il paese era ancora molto arretrato rispetto ai grandi moderni stati europei dell’epoca, il Regno Unito, la Francia, l’Impero Tedesco. Sul piano militare, nonostante la spaventosa miseria in cui si trovavano le masse contadine, specialmente al sud, e l’altrettanto disperata miseria in cui si trovava il giovane proletariato figlio del primo sviluppo industriale, lo stato italiano cercò di bruciare le tappe per competere con le altre potenze nella spartizione Coloniale. Il tentativo, voluto dal ministro Benedetto Brin nell’ultimo scorcio del secolo scorso, di costruire una grande marina per appoggiare gli appetiti coloniali, le gravose spese militari, la costruzione della prima industria siderurgica moderna per produrre corazze navali e moderne artiglierie, furono i passi pratici per recuperare il ritardo italiano nella gara delle potenze. Ma l’impresa in Etiopia finita nel 1896 col disastro di Adua, travolse il governo guerrafondaio di Crispi provocando una battuta d’arresto al programma coloniale. La crisi economica e sociale di fine secolo continuò a tenere lontano lo stato italiano da ogni velleità di conquista. Superata la crisi, "dimenticati" i quasi 10.000 caduti di Adua, l’Italia riprese la corsa, anche se ormai in Africa era rimasto ben poco da spartire. Toccò al governo Giolitti, il più "democratico", il più "moderno", il più bendisposto al "dialogo" con il movimento socialista, a lanciarsi nell’avventura libica.
La Libia, 750.000 abitanti in gran parte nomadi distribuiti in un enorme scatolone di sabbia come fu da qualcuno definito, era l’ultimo lembo dell’Impero ottomano in Nord Africa, un impero che aveva compreso tutta la fascia mediterranea del continente africano. L’impero, in grave decadenza, era sostenuto dalle potenze più che altro in funzione antirussa, era noto, infatti, il sogno dello Zar di occupare Costantinopoli e gli Stretti per raggiungere in questo modo l’ambito Mediterraneo.
Interessi italiani in Libia esistevano già da anni e la strada l’aveva aperta il Banco di Roma, in cui capitali provenivano dal Vaticano. Direttore della banca era un Pacelli, membro di una famiglia recente nobiltà che darà alla Chiesa uomini di grande ruolo, fra cui un cofondatore dell’organo ufficiale del Vaticano "L’Osservatore Romano" e un papa, Pio XII. Il Banco di Roma aveva iniziato investimenti importato nelle regione fin dal 1907 e alla vigilia della guerra, oltre ad avere una sede a Tripoli e una succursale a Bengasi, deteneva importanti linee di navigazione fra la Libia, Malta e Alessandria d’Egitto, monopolizzava il prezioso commercio delle spugne, aveva aperto una fabbrica del ghiaccio ed un oleificio a Bengasi, aveva acquistato terreni e si era spinta nelle prime ricerche minerarie.
A questi interessi economici si affiancavano motivi politici e strategici di grande importanza per lo stato italiano. La Francia che già da anni controllava la Tunisia, una terra che era ambita dall’Italia e per la sua vicinanza alla Sicilia e per la presenza storica nel paese di una forte comunità italiana, con la Conferenza d’Algeciras del 1906 acquisì il controllo politico del Marocco. Poco dopo nel 1908 l’Austria – Ungheria incorporò nel suo impero la Bosnia – Erzegovina. Per lo stato italiano nasceva impellentemente la necessità di agire per non finir relegato a potenza di second’ordine. Il dominio sulla Libia stava passando di mano, e quest’operazione sarebbe stata l’unica tollerata da tutte grandi potenze nel Mediterraneo.
L’operazione fu preparata sui giornali con una grande campagna propagandistica, pubblicitaria si direbbe oggi, che esaltava le ricchezze del territorio libico, ricchezze che solo il "fecondo genio italico" sarebbe stato in grado di sfruttare. Dalla neonata Associazione Nazionalista Italiana capeggiata da Enrico Corradini arrivarono le "basi teoriche" della politica di aggressione come unica politica possibile nel sorgente XX secolo. Dichiarerà Corradini al primo Convegno Nazionalista tenuto a Firenze alla fine del 1910: "Il nazionalismo deve insegnare il valore della lotta internazionale, come il socialismo ha insegnato quello di una lotta minore, quella di classe. La lotta internazionale è la guerra. Il fine della nazione è fuori della nazione…". Non mancò l’appoggio di grandi intellettuali come D’Annunzio e Pascoli, che proprio poco prima di morire nel suo intervento "La grande proletaria si è mossa", tenuto al teatro di Barga, diede una giustificazione "sociale" al suo schierarsi a favore dell’imperialismo.
Il Partito Socialista Italiano si schierò a maggioranza contro la guerra, ma le sue iniziative di piazza furono tardive, incerte e prontamente represse dalla polizia. Proprio per questo lo sciopero generale indetto per il 26 settembre 1911 ebbe successo solo in alcune zone, a Milano dove fu duramente represso, in altre zone nel nord, ma non a Genova, in Romagna, e in altre zone del centro, a Roma a Napoli e nel meridione in genere i risultati furono scarsi. La guerra portò ad acuirsi dello scontro nel partito fra l’ala intransigente rivoluzionaria, i riformisti capeggiati da Turati e i riformisti di destra rappresentati da Bonomi e Bissolati, gli intransigenti accusavano il partito di aver tenuto una politica remissiva davanti alla guerra e di non aver avuto fiducia delle possibilità dello sciopero generale, accusavano inoltre di tradimento la destra riformista che in parlamento continuava ad appoggiare il governo Giolitti. Nel luglio del 1912 al XIII Congresso del partito i rivoluzionari guidati da Mussolini e Costantino Lazzeri conquistano la maggioranza. Bonomi, Bissolati e Cabrini che poco tempo prima si erano congratulati con il re per essere scampato ad un attentato, verranno espulsi dal partito.
Le operazioni militari cominciate con il bombardamento di Tripoli il 3 ottobre 1911 proseguono e entro il 21 i principali centri della costa vengono conquistati. Sembra una guerra breve e facile, ma non sarà così la penetrazione dell’interno è difficile e sanguinosa, i combattenti locali diretti da ufficiali turchi resistono pronti a colpire e a sparire subito dopo nel deserto. I militari italiani salgono velocemente da 35.000 a 100.00. Le rappresaglie contro i civili sono all’ordine del giorno, la prima avviene già il 23 ottobre a Sciara Sciat. Compare come arma per la prima volta nella storia l’aviazione sia nella ricognizione sia nel bombardamento di poveri combattenti libici che si muovono male armati a dorso di cammello. Per stroncare la resistenza turca nell’aprile del 1912 vengono occupate le isole dell’Egeo sotto dominio turco, il Dodecaneso. La guerra si protrarrà ancora per tutta l’estate, poi la Turchia pressata dai fermenti che stavano crescendo nei suoi precari domini balcanici è costretta chiedere la pace che sarà firmata a Losanna il 18 ottobre 1912.
Ma per aver il pieno controllo del territorio all’imperialismo italiano occorreranno vent’anni. La cosidetta "pacificazione" regnerà dal settembre 1931 dopo la deportazione lo sterminio sistematico di intere popolazioni del deserto e la cattura e l’assassinio di Omar al Muctar il capo della ribellione . Un feroce capitolo di conquista coloniale, iniziato dallo stato liberale e continuato dallo stato fascista giungeva al termine.